a cura di Decio Lucano
                                                                                                                                                                           
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In viaggio con Vittorio G. Rossi   di Decio Lucano


I VENT'ANNI DELL'EURO   STORIA E CRONACA CONTEMPORANEA

 

bandiera Italia                                                    bandiera Unione europea

 

L’ANALISI di Tobia Costagliola

 

I VENT’ANNI DELL’EURO
STORIA E CRONACA CONTEMPORANEA


Premessa

Quando Decio Lucano mi ha proposto di scrivere qualcosa sull’anniversario della moneta unica Europea non pensavo di dovermi inoltrare in una narrazione di fatti che, in realtà, precedono questo evento. Una narrazione che è divenuta gradualmente indispensabile, in corso d’opera, mediante una cronologia storica che anche, se incompleta e superficiale, evidenzia due aspetti fondamentali:

1: L’istituzione della Moneta Unica Europea, con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti, è stato uno dei passi fondamentali sul lungo e difficoltoso cammino verso quella integrazione europea “pensata” e auspicata dai padri fondatori della Comunità Europea.

2: Dalla cronistoria che segue, appare evidente che, forse, l’adozione della moneta unica, avrebbe dovuto essere preceduta da una più concreta, efficace e rapida integrazione non solo economica, ma anche politica, sociale e militare (vedasi la mancata CED). Questa incongruenza, al netto dei benefici dell’Euro, è macroscopica così come lo è la costituzione di un Parlamento senza l’esistenza di uno Stato (confederato o meno).

Oggi, mentre sviluppiamo questa cronistoria iniziata il 22 febbraio 2022, assistiamo, increduli, seduti sui nostri divani, alle tremende immagini che ci pervengono dall’Ucraina. Dopo la prima istintiva pietà ed indignazione, seguendo la nostra naturale indole, come in una comune partita di calcio, abbiamo ancora qualche difficoltà ad inquadrare la nostra appartenenza alla giusta tifoseria. Nel frattempo, mentre “ondivaghiamo” tra una notizia e l’altra, mentre improvvisati professori ci spiegano la storia “contemporanea”, sconosciuta ad una distratta e vasta moltitudine o vissuta, con indifferenza e noncuranza da una altrettanto nutrita ed informata popolazione, ci preoccupiamo di quanto questi eventi ci toccheranno direttamente colpendoci nelle tasche, nella salute, nella mente, nel cuore ma, soprattutto, nella stessa nostra esistenza. La nostra lenta e artigianale cronologia del lungo percorso, finora fatto dalla Comunità Europea, iniziata in tempi non sospetti, prima ancora di essere compiuta, si è trovata, all’improvviso, di fronte all’avvento del “futuro”. Un futuro che, secondo le buone intenzioni dei lungimiranti Padri fondatori dell’Europa, oggi sarebbe stato ben diverso, se avessimo portato a compimento tutti i buoni propositi e i progetti che, come stiamo constatando in questo nostro excursus storico, hanno avuto un iter , un ritmo ed una valenza inadeguata rispetto a quel contesto geopolitico che si evolveva tutt’intorno ad un’Europa lenta, presuntuosa , egoista ed incosciente, ebra di libertà, democrazia, benessere, tecnologia, “individualismo”  e “globalizzazione”. In altre parole, gli eventi ci stanno dimostrando che la rotta tracciata dai nostri Padri per raggiungere quell’Europa che sognavano, era la rotta giusta. Purtroppo i figli, incantati dalle sirene (egoismo, nazionalismo, presunzione, cecità, ignoranza e buona parte del contenuto del vaso di Pandora) hanno “perso” la bussola, ritardando la navigazione verso quella meta tanto ambita chiaramente individuata dai loro Padri. Significativo e patetico, “il mea culpa” che comincia a diffondersi ed il raggiungimento, tardivo, di quella unione di intenti e di azioni che avremmo dovuto trovare, ben prima, evitando quegli indicibili lutti e la miseria che ne seguirà in maniera irreparabile, in un coinvolgimento planetario. Ciò premesso, continuiamo, imperterriti, a tracciare la improvvisata cronistoria del “cammino” dell’Europa. Alla fine della terza puntata, siamo ancora agli anni ’60, quando gli Stati membri della Comunità erano ancora sei. Con l’aggiunta della Parte Quarta, abbiamo pensato, con Decio Lucano, di riportare, daccapo, tutta la cronistoria iniziata con 02DL NOTIZIE del 25 GENNAIO 2022. Contiamo di chiuderla nelle prossime due/tre puntate.

 

 

PARTE PRIMA

Introduzione di Decio Lucano

Navigando nella sua analisi Tobia Costagliola ci regala un pezzo di storia nell’anniversario della nascita della moneta unica europea, indispensabile per chi opera nel settore, per chi vuole imparare, la scuola, per chi vuole archiviare il percorso della moneta unica che ovviamente si intreccia con la costituzione della Europa Unita, argomento che sarà approfondito nei prossimi numeri .La Banca Centrale europea, da Draghi a Lagarde, se vogliono, come hanno fatto entrare nello spirito europeo devono operare con le monete  ( che non sono tutte paritarie , vedi il rapporto € Italy e € germanico) calmierando sui prezzi ed evitando impennate tipo spread o prezzi in ascesa, specialmente oggi con la crisi energetica e che tutti sperano o si illudono di risolvere con due pale eoliche…  Lascio a Costagliola la sua premessa, ma credo fermamente che la sua preparazione, la sua correttezza nella ricerca (cui Tobia ci ha abituato) non potevano rimanere fuori dalla porta della nostra cultura, del nostro Notiziario che come in questo numero raccoglie importanti e svariati contributi da parte di nostri collaboratori che ringraziamo. (DL)

Prima di parlare dell’Unione Monetaria Europea e della sua moneta, scaturite dal tanto discusso trattato di Maastricht del 1992, vorrei ripercorrere, sinteticamente, la storia dei primi accordi che, già nell’ultima fase della seconda guerra mondiale, hanno evidenziato la necessità di regolare i futuri rapporti economici e finanziari, a livello internazionale, facendo tesoro delle cause che, dal ’29 in poi, condussero al secondo conflitto mondiale. L’Unione Europea con la sua moneta unica, non è altro che una ulteriore e faticosa tappa di quel cammino intrapreso, già in quell’epoca, ma che, purtroppo, per varie ma identificabili cause, sembra allontanare le Nazioni coinvolte e quelle in attesa, dalla meta prestabilita di una integrazione più completa sotto ogni aspetto. C’è ancora tanto da fare e abbiamo poco tempo, prima che il “nazionalismo” prevalga su ogni buon proposito di una migliore “Unione” e “Integrazione”. Ecco quindi una breve cronistoria dell’atavica aspirazione, quasi un’utopia, degli uomini che governano le Nazioni, alla ricerca di regole comuni per una pacifica convivenza e non solo.

 

Accordi di Bretton Woods ( USA): 1-22 luglio 1944

 

 

Gli accordi gettarono le basi per il nuovo sistema monetario internazionale con la creazione della Banca Mondiale (Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo) e del Fondo Monetario Internazionale (FMI). L’obiettivo fu quello di stabilizzare i tassi di cambio ed eliminare gli squilibri dei pagamenti internazionali (ritenute parte delle cause economiche della seconda guerra mondiale).

Secondo il sistema definito a Bretton Woods, il dollaro divenne l’unica valuta convertibile in oro in base al cambio di 35 dollari contro un’oncia. Il dollaro venne poi eletto valuta di riferimento per gli scambi.

In Italia, nel febbraio 1946, il cambio ufficiale fu fissato a 225 Lire per 1 dollaro e, nell'agosto 1947, a 350 lire. Una parentesi sulle vicende della moneta nazionale si aprì tra il 1943 e il 1947, allorché le forze militari alleate di occupazione nel Sud dell'Italia emisero e utilizzarono la Allied Military Lira (le cosiddette ''AM lire''), cioè carta moneta inconvertibile resa mezzo di pagamento legale e intercambiabile con la moneta locale per proclama militare. Dal dicembre 1947 al settembre 1949, i cambi ufficiali della Lira furono ricavati dalla media mensile delle quotazioni giornaliere presso le borse di Roma e Milano. In questo periodo il cambio della Lira con il dollaro oscillò da un massimo di 603 a un minimo di 573 Lire per 1 dollaro. Nel settembre 1949, seguendo l'esempio della sterlina, la Lira fu svalutata. All'inizio del decennio inoltre entrò in vigore l'Accordo Monetario Europeo (AME) nel cui regime di cambi fissi venne introdotta la convertibilità esterna della Lira (con scarti di ±0,72% rispetto alla parità con il dollaro, cioè da 620,50 a 629,50). Da allora il cambio si mantenne stabile intorno a 625 L. per 1 dollaro, fino al termine degli anni Sessanta.

 

 

                                                                                     Gli accordi di Bretton Woods

 

 

Il ruolo dell'FMI

 

Il FMI fu formalmente istituito il 27 dicembre 1945, quando i primi 44 Stati firmarono l'accordo. L’organizzazione nacque nel maggio del 1946 e, attualmente, gli Stati membri sono 190. L'istituzione fu creata con l’obiettivo di vigilare sulle nuove regole e sul sistema dei pagamenti internazionali. Per aderirvi, ogni Stato doveva versare una quota in oro e una in valuta nazionale sulla base delle quali veniva deciso il suo peso decisionale. L’obiettivo del Fondo, inizialmente, era quello di promuovere la cooperazione monetaria internazionale, facilitare l'espansione del commercio internazionale, promuovere la stabilità e l'ordine dei rapporti di cambio evitando svalutazioni competitive; controllare la liquidità internazionale e coadiuvare i vari paesi nel caso di difficoltà nella bilancia dei pagamenti. Altro ruolo era vigilare le politiche macroeconomiche degli Stati, di aiutare quelli in difficoltà, specie in via di sviluppo, con prestiti a breve termine.

 

L’Italia ed il miracolo economico

                                                                                       L'Italia ed il miracolo economico

immagine tratta da Studia Rapido -15/05/2020

 

Il 10 febbraio 1947, l’Italia sottoscrive il Trattato di Parigi. Il 15 marzo 1947 aderisce agli accordi di Bretton Woods e si associa al FMI ed alla Banca Mondiale. Capo provvisorio dello stato e Capo del Governo è Alcide de Gasperi. Il 22 dicembre del 1947, l’Assemblea Costituente approva la prima Costituzione repubblicana che entra in vigore il 1gennaio 1948.

Nel contesto economico e finanziario creato dagli accordi di Bretton Wood, l’Italia della primissima repubblica, forte della sua Costituzione, di una classe politica multicolore ma dotata di intelligenza e lungimiranza e con una popolazione attiva e determinata, dimostrò tutta la sua vitalità e voglia di riscatto. Tra il 1951 e 1958, il prodotto Interno Lordo aumentò ad un tasso medio annuo di oltre il 5%; nel ’59 raggiunse il 7% e superò l’8% nel ’61. Fra il 1953 e il 1961, la crescita media della produttività fu del l'84%, accompagnata da un incremento dei salari del 49 per cento. Nel 1960, una giuria internazionale nominata dal Financial Times attribuì alla lira italiana l'Oscar della moneta più salda dell'Occidente per l’anno 1959. Nel 1961 a Menichella (Governatore della banca d’Italia fino al 1959) fu assegnato, ancora dal Financial Times, l’Oscar del più abile governatore di Banca Nazionale.  Tra il ’58 e il ’63, il PIL aumentò del 6,3% p.a. e fu secondo solo alla Germania. Le esportazioni aumentavano ad un tasso del 14% p.a. ed il tasso di disoccupazione era al di sotto del 4%. L’IRI divenne il fulcro dell’intervento dello Stato nell’economia italiana e rimodernò la siderurgia nazionale. Fu creato L’ENI che divenne il centro energetico di riferimento per il Paese. Si registrò, in questi anni, una incredibile espansione dell’economia capitalista che portò a ciò che fu definito, soprattutto all’estero, “il miracolo italiano”.

Questo miracolo, tuttavia, si reggeva su un bilancio in deficit caratterizzato da una spirale di aumenti salariali e aumento dei consumi con conseguente “inflazione sostenuta”. Questo causò una graduale difficoltà delle imprese nel finanziamento degli investimenti e i mercati (già da allora!) cominciarono a “temere” per i nostri conti, mentre una serie di attacchi speculativi sulla Lira faceva intravedere una imminente sua svalutazione.

Il 1963 fu un anno cruciale: Governo Fanfani, fine terza legislatura; elezioni politiche, perdita di consensi della DC, breve governo Leone, subentro primo Governo Moro e inizio del “centro sinistra”.

Governo e Banca d'Italia, nel maggio del 1963, decisero di attuare politiche fiscali e monetarie restrittive con lo scopo di combattere l'inflazione e di rafforzare la valuta. Ne conseguì il crollo della produzione industriale e diminuzione dell’occupazione. Il Governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, nel solo mese di marzo 1964, utilizzò circa 200 milioni di dollari di riserve in modo da mantenere stabile il cambio. Contemporaneamente, forte della sua reputazione internazionale, si recò in USA e, coinvolgendo Federal Reserve e Tesoro americano (che a sua volta coinvolse la Bank of England), ottenne la disponibilità di ben 1,275 miliardi di Dollari. La cifra non fu mai utilizzata: bastò la diffusione della notizia a far placare la speculazione in atto, Questo gettò le basi per una ripresa economica che avvenne nella seconda parte degli anni '60, con l'inflazione che fu tenuta sotto controllo e la bilancia commerciale che riprese il saldo positivo dopo lo stop degli anni '63 e '64.  La bilancia dei pagamenti dell’Italia presentò, nel 1964, un saldo attivo di 774 milioni di dollari, il più elevato dell’ultimo quinquennio. Nel 1963 la bilancia dei pagamenti si era chiusa con un disavanzo di 1.252 milioni di dollari (!).

Bene! A partire dal 1febbraio 1965, il Financial Times, la stampa italiana e internazionale titolavano: Alla lira l’«Oscar» delle monete per la sua rapida ripresa nel ’64: «In pochi mesi, da quando sembrava sull’orlo della svalutazione, la Lira ha riacquistato considerevole vigore» – Un altro premio all’Italia «per la condotta economica più coraggiosa».

Il comunicato della Banca d’Italia: “La lira è stata nominata «moneta vedetta» del 1964 e, per questa sua brillante prova, ha ricevuto l’Oscar del quotidiano londinese Financial Times. Lo stesso simbolico premio fu assegnato alla nostra moneta nel 1959. Allora le fu dato come una delle valute più forti del mondo», questa volta per “la sua spettacolosa ripresa”, dopo la crisi dei primi mesi dell’anno”.

 

La fine di Bretton Woods

 

Il sistema Bretton Woods, basato sulla convertibilità del dollaro in oro, ha resistito fino al 1971. La guerra del Vietnam, l’incremento della spesa pubblica e del debito americano ne segnarono la fine. Infatti, il 15 agosto 1971, Richard Nixon, sospese la convertibilità del dollaro in oro, in quanto, con le crescenti richieste di conversione in oro, le riserve americane si stavano sempre più riducendo. Questa decisione segnò l'inizio di un periodo di instabilità delle diverse monete nazionali collegate al dollaro.

Nel mese di dicembre del 1971, il gruppo del G10 formato da Germania, Belgio, Canada, Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia uscirono dall’accordo di Breton Woods.  Con lo “Smithsonian Agreement” il dollaro venne svalutato e si diede il via alla fluttuazione dei cambi.

Il governo americano, nel febbraio del 1973, decise una nuova svalutazione del dollaro da 35 a 42 dollari per oncia d'oro. Allora si disse che la decisione fu presa anche per consentire un maggiore equilibrio tra il cambio delle monete dei paesi più industrializzati. Nei Paesi della CEE i mercati dei cambi vennero chiusi e il dollaro fu svalutato del 10%.  In Italia, la Lira venne fatta fluttuare liberamente, e perdette,
alla riapertura, il 9% del suo valore (!).

Contemporaneamente, negli USA, divennero più stringenti le limitazioni imposte sui depositi bancari. Tuttavia, le banche americane trovarono l’escamotage di aprire loro filiali all’estero, soprattutto in Europa, a partire da Londra, aumentando, così, il volume delle intermediazioni bancarie fuori dagli USA. In tal modo si estese ancora di più l’utilizzo del dollaro sui mercati internazionali dando vita all’Eurodollaro.

L’Eurodollaro era un deposito bancario denominato in dollari USA detenuto presso banche al di fuori degli Stati Uniti. Inizialmente con Eurodollaro si indicavano i soli depositi presso banche europee, mentre il termine si è poi esteso ai depositi presso qualunque intermediario creditizio non domiciliato negli Stati Uniti (cfr.Enc.Treccani) . Fu una specie di evasione “ufficializzata” dai vincoli americani. Per taluni fu un canale incontrollato di creazione di liquidità internazionale e potenziale fattore inflazionistico “globale”; per altri, più benevoli e “interessati” l’Eurodollaro fu considerato una naturale e salutare valvola di sfogo.

 

E il FMI?

 

Venuta meno la necessità di gestire la liquidità internazionale, il FMI dovette cambiare il suo ruolo di sorveglianza curandosi delle politiche macroeconomiche interne dei singoli Stati e delle strutture dei loro mercati.  Sua priorità fu il finanziamento degli squilibri della bilancia dei pagamenti dei paesi in via di sviluppo, passando dai prestiti a breve termine a quelli a lungo termine. Detti prestiti sono ancora oggi vincolati al rispetto di specifiche condizioni e rigorosi piani di stabilizzazione macroeconomica. Abbiamo tutti visto il ruolo determinante che il FMI ebbe nei piani di salvataggio di Grecia, Irlanda e Portogallo.

Purtroppo, il salvataggio in extremis della Grecia, oltre ad essere espressione del potenziale finanziario del FMI, ha messo in luce la sua incapacità, con i suoi clamorosi errori, di gestire la “crisi sistemica “della Zona Euro e, in generale, come gestire la politica di una Unione Monetaria. Conseguenza visibile agli occhi dei disincantati: “La Grecia è stata sacrificata per salvare L’Euro” come ammesso da qualcuno (Lagarde) al FMI, senza alcuna vergogna.

 

Riflessioni

Prima di arrivare all’Euro e a ciò che ha rappresentato e ancora rappresenta per noi, vorrei ancora completare questo sommario ma necessario excursus storico accennando brevemente alla CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) ed alle successive iniziative che hanno generato l’attuale configurazione della Unione Europea.

Ne parleremo alla prossima puntata di cui anticipo alcuni interrogativi: ma l’Euro, in quanto moneta unica, è stato per noi un bene o un male? O meglio: ha avuto gli stessi effetti per tutti i paesi dell’Unione? O ha favorito alcuni a danno di altri? Si potrebbe affermare, dopo 20 anni, che, quei delegati degli Stati che trattarono a Maastricht, forse, troppo presi dall’importanza epocale di ciò che stavano decidendo per le loro Nazioni, hanno convenuto, troppo facilmente, condizioni e compromessi di quei trattati. Alcune condizioni si sono rivelate fonti di divisioni, più che di unione e fonti di pericolose diseguaglianze che rischiano di incancrenirsi col perdurare dello stallo in cui versano le iniziative che avrebbero dovuto portare, in breve tempo, ad una maggiore coesione ed integrazione politica. Si tratta di un pericoloso stallo chiaramente causato da egoismi nazionali, poca lungimiranza e incapacità di realizzare una “vera” e concreta unione europea.

 

PARTE SECONDA

Una breve premessa

Continuiamo la cronologia storica di quelle iniziative che, dopo la seconda guerra mondiale, hanno portato alla Unione Europea ed alla moneta unica. Trattandosi di storia e cronaca contemporanea, ho attinto, per questa mia incompleta narrazione, alla Storia d’Italia di Indro Montanelli, alla mia memoria personale ed agli archivi di quotidiani come Corriere della Sera, Repubblica, il Sole24ore, Avvenire, ecc,. filtrata dalla attendibilità dell’Enciclopedia Treccani. E’ d’obbligo fare un piccolo passo indietro per meglio individuare e ricordare alcune date che corrispondono ad altrettante pietre miliari del percorso di pacificazione e di costruttiva collaborazione tra le nazioni, soprattutto quelle dell’Europa. (T.C.)




1940-1941: Manifesto di Ventotene, PER UN’EUROPA LIBERA E UNITA


1940-1941: Manifesto di Ventotene, PER
                      UN’EUROPA LIBERA E UNITA




Altiero Spinelli                                Ernesto Rossi

                Altiero Spinelli                                                                 Ernesto Rossi

Eugenio Colorni

Eugenio Colorni

                                                                                        

Per noi “europei”, italiani soprattutto, non va dimenticato il valore profetico del manifesto che già nel 41 con grande lungimiranza tracciava le basi per una nuova organizzazione degli stati europei dopo la prevedibile ed inevitabile fine del nazismo e del fascismo.

Questo manifesto, quasi un’utopia, è il punto di partenza di una cooperazione e di una integrazione tra gli Stati d’Europa, ancora oggi incompiuta, nonostante il laborioso cammino percorso. Il Manifesto di Ventotene fu scritto, a 4 mani, da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi con il contributo del socialista ebreo Eugenio Colorni, di sua moglie U. Hirschmann, e di altri antifascisti non comunisti come G. Braccialarghe, Arturo Buleghin, Dino Roberto, Llazar Fundo e Stavro Skendi. Erano tutti confinati dal regime fascista nel carcere a cielo aperto di Ventotene insieme a un centinaio di politici e delinquenti comuni. Elaborarono la loro dottrina di Stato Federale ispirandosi a ideali che già circolavano in Europa da circa un secolo e mezzo e, partendo dall’analisi delle ragioni che avevano provocato due guerre mondiali, si ispiravano, contemporaneamente, alle riflessioni di L. Einaudi sulla crisi dello Stato-nazione.

Il titolo completo, quando fu diffuso clandestinamente in Italia ed in Europa era “Il Manifesto per un’Europa libera ed unita”. Punto di partenza era la necessità di offrire all’Europa il progetto di un nuovo sistema fondato sull’interdipendenza degli Stati e non più sull’equilibrio fra “Stati Sovrani”. Il Manifesto fu diviso in 3 parti: una dedicata alla crisi della società moderna, l’altra all’unità europea dopo la guerra, entrambe scritte da Spinelli, e la terza, scritta da Rossi, alla riforma della società. Secondo lo stesso Spinelli, del Manifesto restano attuali tre elementi di valutazione: la necessità di un’azione politica per la realizzazione della Federazione europea nel tempo presente, la continuità di quest’azione affidata a un movimento di rivoluzionari di professione, l’adesione al progetto di unire l’Europa su basi federali come metro di giudizio delle forze politiche tradizionali (cfr. P.V. Dastoli, Enc. Treccani). Quando Spinelli fu liberato, nel ’43, fondò a Milano il Movimento Federalista Europeo che inizia la battaglia federalista internazionale e comincia a diffondersi in Europa come MFE e, nel ’44, in Francia nasce il CFEE (Comitato Francese per la federazione europea). Aderiscono personalità di spicco come Leo Valiani, Adriano Olivetti, Luigi Einaudi e altri esponenti politici, senza contare che l’idea europea aveva sostenitori convinti e prestigiosi come De Gasperi, Adenauer, Schumann e finanche Winston Churchill (anche se un po’ meno convinto).

17 marzo 1948. Trattato di Bruxelles per l’istituzione della U.E.O.

U.E.O. era la sigla che identificava l'Unione Europea Occidentale istituita a Bruxelles il 17 marzo 1948, tra il Belgio, la Francia, i Paesi Bassi, il Lussemburgo e la Gran Bretagna, allo scopo di organizzare una difesa collettiva nel caso di una rinnovata politica aggressiva della Germania e, nel contempo, di promuovere tra gli stati stessi la cooperazione economica, sociale e culturale. In realtà non si trattava di una esigenza di sicurezza nei confronti dell’ancora inerme Germania ma di un concreto pericolo derivante dall’Unione Sovietica che stava allargando la sua egemonia sull’Europa Orientale. L’Europa occidentale e la sua popolazione temeva che il Piano Marshall potesse essere inficiato dalla espansione sovietica e, limitandosi al solo impegno economico, avrebbe lasciato l’Europa sguarnita di adeguata difesa. Tra l’altro, l’atteggiamento dei partiti comunisti europei, specialmente d’Italia e Francia, non era favorevole ad ulteriore ingerenza(sic!) degli USA nella disastrata Europa. Come vedremo, l’UEO non diede sensibili risultati e subì, successivamente, sostanziali modifiche (1954)

4 aprile 1949: istituzione della NATO

Fin dalla spartizione della Germania, l’Unione Sovietica cominciò ad isolarsi “in blocco” con i suoi paesi satelliti. Nonostante la UEO, come sopra accennato, le tensioni ed i timori dell’Europa Occidentale, generate dalla pressione minacciosa del “Blocco Sovietico”, indussero gli USA, già coinvolti nel Piano Marshall, a promuovere una alleanza intergovernativa più estesa ed articolata per la sicurezza, e la “difesa collettiva”. Questa alleanza, sottoscritta a Washington il 4 aprile del 1949, fu definita NATO (North Atlantic Treaty Organization) e stretta tra gli Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Belgio, Danimarca, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo. Il trattato istitutivo della NATO fu il Patto Atlantico che entrò in vigore il 24 agosto dello stesso anno. Tuttavia, nonostante i buoni propositi per il futuro assetto dell’Europa, la Germania fu esclusa da questa alleanza. La Francia ancora troppo “scottata”, mal vedeva la formazione di un esercito tedesco.

5 maggio 1949: trattato di Londra, Istituzione del Consiglio d’Europa

                                                                                                    Foto del Palazzo d’Europa a Strasburgo

La sede del Consiglio d'Europa a Strasburgo 1

… pestava acqua nel mortaio…” (Montanelli) ma era la prima organizzazione internazionale sorta in Europa.

Gli impulsi mai sopiti per una Comunità Europea, nello spirito di “Ventotene”, portarono, il 5maggio 1949, al trattato di Londra, dove 10 paesi dell'Europa Occidentale (Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia), istituirono il Consiglio d’Europa, la prima organizzazione internazionale sorta in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Lo scopo del CdE era quello di evitare che le atrocità della seconda guerra mondiale si ripetessero e di promuovere la democrazia e lo Stato di diritto, i diritti umani, l'identità culturale europea, la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa. Il CdE, da una parte venne visto con sospetto dagli USA che temevano un effetto riduttivo sul Patto Atlantico e, dall’altra, almeno all’inizio, nonostante le buone intenzioni, non riuscì ad assumere una fisionomia operativa efficace con delegati governativi privi di potere. Indro Montanelli, nella sua monumentale Storia d’Italia, vol.10 (anni 1948-65) dà una lapidaria definizione dell’attività del CdE: “pestava l’acqua nel mortaio”.

Il 17 ottobre 1989 è stato riconosciuto al CdE lo status di osservatore dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Oggi conta 47 Stati membri e la sua sede istituzionale è a Strasburgo.

18 aprile 1951 : trattato di Parigi per la costituzione della CECA)

Continuano le instancabili iniziative alla ricerca di nuove forme di aggregazione in Europa. Ispirati dalla disastrosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale e dalle cause che l’avevano determinata, nel 1951, 6 nazioni europee, Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Repubblica Federale di Germania (tralasciamo le vicende che portarono alla sua costituzione), dopo le iniziative già prese oltre atlantico, diedero un chiaro segnale di vitalità, volendosi muovere “con le proprie gambe”. II 18 aprile 1951, fu firmato a Parigi il trattato che istituì la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). L’obiettivo era la creazione di un mercato comune del carbone e dell’acciaio, caratterizzato dalla libera circolazione di tali risorse all’interno della Comunità Europea e dal libero accesso alle fonti di produzione. La Gran Bretagna, pur avendo aderito al Consiglio d’Europa, avendo interessi e visioni diverse, preferì mantenere il suo “status” di “insularità” ritenendosi “fuori” dai problemi dell’Europa “continentale”: atteggiamento che continuerà a mantenere anche successivamente restando “con un piede fuori ed uno dentro”, fino a pervenire alla “Brexit” dei nostri giorni. Il trattato costitutivo della CECA (Comunità europea del carbone e dell'acciaio) fu firmato a Parigi il 18 aprile1951 ed entrò in vigore il 23 luglio 1952. (Il "Mercato Comune" previsto dal trattato viene inaugurato il 10 febbraio 1953 per il carbone e il ferro, il 1º maggio seguente, per l'acciaio. Il trattato aveva una durata di 50 anni ed ha avuto termine il 23 luglio del 2002. La CECA successivamente divenne parte dell'Unione Europea).

Da Schumann a Monnet, il riscatto della Germania

Il progetto fu ideato, qualche anno prima, nella più grande segretezza, in Francia, dal mitico economista e politico Jean Monnet e ispirò il “Piano Schumann” che mirava, anche su sollecitazione di USA e Gran Bretagna, a reintegrare la “monca” repubblica federale di Germania nel consesso occidentale. Robert Schumann, ministro degli esteri francese, uomo di frontiera (era un po’ lussemburghese ed un po’ tedesco) memore delle storiche passate rivalità (contesa per Ruhr, Alsazia, Lorena ecc.) tra Francia e Germania, fece pervenire direttamente ad Adenauer il suo piano che l’approvò senza esitazioni: era per la Germania una imperdibile opportunità di “riscatto” e di cooperazione per la costruzione di una “nuova Europa”.  Il 9 Maggio 1950, nel corso di una storica conferenza stampa, R. Schumann, forte dell’accordo del governo francese e del governo tedesco occ., rende pubblico il suo progetto e afferma, tra l’altro:” […] La Francia ha agito essenzialmente per la pace. Ma affinché la pace abbia realmente delle possibilità di successo, bisogna che vi sia anzitutto un'Europa. Esattamente cinque anni dopo la capitolazione incondizionata della Germania, la Francia compie il primo atto decisivo per la costruzione europea, associandovi la Germania, il che deve trasformare completamente le condizioni europee. Tale trasformazione aprirà la via ad altre azioni comuni, finora impossibili. l'Europa nascerà da tutto questo, un'Europa unita e solidamente impiantata. Un'Europa in cui il livello di vita aumenterà grazie al raggruppamento delle produzioni e all'ampliamento dei mercati che provocheranno il ribasso dei prezzi […] Ecco il modello da seguire. Non si tratta di un nuovo accordo tecnico sottoposto all'aspra contrattazione di negoziatori. La Francia tende la mano alla Repubblica federale di Germania proponendole l'associazione su piede d'uguaglianza, in seno ad una nuova entità, incaricata anzitutto della gestione comune del carbone e dell'acciaio dei due paesi ma, in un secondo tempo, di porre la prima pietra della federazione europea.” 

L’enfasi di Schumann era dovuta anche (o soprattutto) alla consapevolezza che quella era l’occasione per regolare, su basi durature e pacifiche, l’utilizzo delle risorse di un vasto territorio che era stato per lungo tempo la causa delle contese tra i due Paesi.

 

 

Francobollo Jean
                      Monnet

Jean Monnet cittadino d’Europa commemorato in un francobollo della Repubblica Federale tedesca nel 1977

Alcide de Gasperi dimenticato?

 

Ho rilevato che, all’epoca, non fu dato un adeguato risalto alla partecipazione al progetto di Alcide de Gasperi, europeista convinto che, pur nella sua posizione di rappresentante di una nazione “sconfitta” e disastrata, spingeva i suoi omologhi verso forme di aggregazione fra gli Stati Europei, memore di quello storico manifesto di Ventotene del 1941, ben noto e condiviso anche a Parigi.

Va anche detto che “Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Jean Monnet e Robert Schumann appartenevano a una generazione cresciuta all’epoca degli Stati nazionali e del nazionalismo, ma vennero segnati anche dal loro provenire da terre di confine. La loro esperienza li spinse a promuovere lo scambio e la collaborazione tra nazioni nonché a riconoscere prima di altri la necessità di una cooperazione a livello europeo” (cfr: Degasperiana Sulle tracce dei padri dell’Europa).

Adenauer De Gasperi
                      Schuman

1952:Adenauer, De Gasperi, Schuman.  Insieme a Monnet sono considerati i veri padri dell’Europa

E’ovvio che non ci si poteva attendere dagli storici o dai “media” francesi un’apologia del “Manifesto di Ventotene” ma credo che, oggi, tutti sarebbero in grado di confermare quanto quelle poche paginette abbiano veramente influenzato e guidato le coscienze e le menti di coloro che hanno poi meritato il titolo di Padri di un Europa che prometteva bene, ma che è rimasta, ancora oggi, lontana dalla meta prefissata. A causa dei loro “figli” che hanno perso la memoria e la “bussola”, distratti da cieco egoismo, carenza di visione a lungo termine e anacronistico nazionalismo che è sempre pronto ad emergere con conseguenze disastrose come “Historia docet”.

 

27 maggio 1952.  Firma a Parigi del trattato per la CED Comunità Europea per la Difesa)

Nella visione di una Europa unita non può non trovar posto anche il progetto di una difesa comune, così come la politica, l’economia, la finanza, la moneta, una costituzione. Il trattato per la costituzione della CED (Comunità Europea di Difesa) fu firmato dai 6 paesi costituenti la CECA. L’azione di Spinelli e del MFE fu decisiva per la sua creazione. Montanelli scrisse che fu il più ambizioso e più sfortunato tentativo per dare alla costruzione europea una struttura veramente integrata in un settore di particolare importanza e delicatezza: quello delle Forze Armate. Lo scoppio della Guerra di Corea aveva creato il timore di una prossima invasione sovietica dell’Europa. Il consiglio d’Europa, allargato alla CECA, votò una risoluzione per la costituzione di un esercito europeo sotto il comando della Nato, gestito da un ministro europeo della difesa. La struttura di questo apparato, condizionata dalla necessità di evitare un riarmo tedesco, prevedeva che ogni nazione partecipante assegnasse al costituendo esercito europeo una divisione, fermo restante il mantenimento di un esercito nazionale. La Germania, invece, avrebbe dovuto armare solo la divisione destinata all’Europa. I tedeschi, dalla classe politica ai cittadini, erano favorevoli a questo principio che escludeva un riarmo più generale del Paese. Nonostante la risoluzione, molte furono le perplessità soprattutto in Francia e in Italia prima che il piano fosse approvato con un trattato. Va detto che, in Italia, le “sinistre”, già contrarie al Patto Atlantico, erano fortemente contrarie ad una CED. Per giungere alla firma del trattato, nel 1952, gli Stati Uniti diedero un ultimatum minacciando di armare un esercito tedesco se non si fosse firmato al più presto il patto istitutivo della CED, la comunità europea di difesa. Il patto venne firmato il 27 maggio 1952 e i vincitori restituirono alla Germania la piena sovranità nazionale. Ma il trattato doveva essere approvato dai parlamenti dei singoli Stati. La morte di Stalin aveva ridotto la tensione tra i due blocchi e altre situazioni come la guerra d’Indocina e cambiamenti politici interni, avevano indotto la Francia a temporeggiare fin quando, soltanto nel 1954, l’Assemblea Nazionale decise di rigettare il trattato. Anche l’Italia, “a rimorchio” della Francia, non aderì ed il trattato restò lettera morta. A questo punto, la minaccia degli USA fu attuata indirettamente per l’intervento di Eden (Primo Ministro inglese): l'Italia e la Germania vengono invitate ad entrare nell'Unione Europea Occidentale (UEO), viene approvato il trattato di Bruxelles modificato (l'originale è del 1948), inoltre la Germania può ricostituire un proprio esercito con limitazioni nel numero di soldati e di armi. La sentenza storica, un po’ distorta, fu che “la CED non è mai entrata in vigore a causa della mancata ratifica da parte della Francia”.

23 ottobre 1954.Parigi. Modifica del trattato di Bruxelles del 1948 per la UEO

Nel 1954, dopo il fallimento del tentativo della CED, la UEO, l’organizzazione politico-militare, creata col Trattato di Bruxelles del 1948, fu trasformata con l’adesione della Repubblica Federale di Germania, dell’Italia, Francia ed altri paesi. La nuova UEO era costituita da 28 paesi che godevano di 4 status differenti:

membri effettivi (Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia, Regno Unito, Italia, Repubblica Federale di Germania, Grecia, Spagna e Portogallo); membri associati (Ungheria, Islanda, Norvegia, Polonia, Repubblica Ceca e Turchia); osservatori (Austria, Danimarca, Finlandia, Irlanda e Svezia) e partner associati (Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia e Romania).

Rimasta pressoché inattiva per 30 anni, essendo la sua funzione difensiva espletata dalla NATO, l’UEO venne riattivata nel 1984 per la creazione di un’identità europea di difesa. Consistette di un Consiglio, con sede a Bruxelles, di un Segretariato (che nel 1993, nel quadro della crescente collaborazione con NATO e UE, è stato portato da Londra a Bruxelles), di un’Assemblea parlamentare, di un’Agenzia per il controllo degli armamenti e di un Istituto di ricerca. Le attività dell’UEO sono state trasferite all'Unione Europea nel 2011.

 

1-3 giugno 1955: Conferenza di Messina: una politica europea atomica

I sei Stati della Comunità europea del carbone e dell'acciaio delineano le tappe per la creazione del Mercato europeo comune e della Comunità europea dell'energia atomica.

25 marzo 1957. Trattati di Roma. Nasce la CEE (Comunità Economica Europea) e la Comunità Europea.

Continua il lento, graduale e faticoso processo di unificazione dell’Europa dopo l’istituzione della CECA che può essere vista, oggi, come una tappa fondamentale verso la Comunità Economica Europea (divenuta Unione europea nel 1992). Già in occasione del trattato CECA, gli Stati membri, sottoscrissero anche una serie di protocolli collaterali sui privilegi e le immunità della comunità che si stava creando, sullo statuto della Corte di Giustizia e del Consiglio d’Europa

La CEE, creata come una Organizzazione internazionale a carattere regionale, fu istituita con il Trattato di Roma del 25 marzo 1957, stipulato dai sei paesi fondatori della CECA (Italia, Francia, Repubblica Federale di Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo). Nella stessa data, fu firmato il trattato per la costituzione della   CEEA (o EURATOM) Comunità Europea dell’Energia Atomica. I Trattati di Roma entrarono in vigore il 1° gennaio 1958. La CEE e la CEEA venivano così ad aggiungersi alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), creata con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951, e formavano le cosiddette Comunità Europee.

Delle tre Comunità, la CEE è stata indubbiamente, per le più ampie finalità del Trattato istitutivo, quella nel cui ambito si sono realizzati i maggiori sviluppi del processo d’integrazione tra gli Stati membri. (vedi Enc.Treccani)

4 gennaio 1960: istituzione dell’EFTA ( European Free Trade Association)

L’EFTA o AELS (Associazione Europea di libero scambio) fu istituita a Stoccolma tra Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Svezia e Svizzera consentendo al Regno Unito di mantenere la sua posizione di privilegio negli scambi commerciali con il Commonwealth, aderendovi dal 3 maggio 1960. L’iniziativa, ancora oggi, appare come una manifestazione di contrasto tra i paesi dell’EFTA al traino del Regno Unito e quelli della CECA, quasi una “ripicca” nei confronti delle tre comunità europee (vedi sopra). (Tra il ’70 ed il ‘91 vi aderirono anche l’Islanda, la Finlandia ed il Liechtenstein. Attualmente l’EFTA è formata solo da 4 paesi: Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. Tutti gli altri paesi sono gradualmente diventati membri prima della Eec e, successivamente della Eu).

E’ paradossale! Ma quando parleremo dell’Euro?

Forse sono stato un po’ avventato nell’annunziarlo fin dalla prima puntata. Purtroppo, condizionato, da questo mio handicap di risalire alle origini delle cose, ho dovuto ricordare queste origini a me stesso, per meglio comprendere gli avvenimenti successivi anche se sono stati vissuti intensamente e direttamente, da tutti noi. Vi rimando con mille scuse, alla prossima puntata.

 

PARTE TERZA

 

Continuiamo il lungo percorso verso l’utopica integrazione europea, prima di arrivare all’Euro. Come nelle precedenti puntate, oltre all’evoluzione dei rapporti tra gli Stati europei, continuerò a descrivere, sommariamente, anche i rapporti con gli Stati Uniti il cui ruolo, dopo Yalta, sembra essere quello di tutori della neonata Comunità e del resto dell’Europa Occidentale nell’ambito dei due blocchi Est- Ovest.  Ma le ambizioni degli Stati Europei non erano tutte eguali e, a partire dagli anni ’50, il progetto di integrazione europeo subì molti ritardi dovuti soprattutto alla Francia di de Gaulle. Il Generale, ancor prima di andare al potere, esercitò una forte influenza politica con la sua visione di una Francia che avrebbe dovuto riconquistare la sua posizione di potenza economica e non solo. Pur essendo sostenitore di una Comunità Europea, il generale concepiva un Europa che si estendesse dall’Atlantico agli Urali con la creazione di “un blocco commerciale, la cui politica estera e di difesa sarebbe stata concertata dai Governi nazionali in accordo tra loro” gli Stati membri sarebbero rimasti gli attori principali e la forza portante della CEE, senza alcuna necessità di una autorità sovrannazionale o federale. Il concetto del “nazionalista” de Gaulle prevedeva la “centralità” dei singoli Stati guidati dalla Francia, come unica grande potenza dell’Europa Continentale, risorta dalla guerra, che sarebbe diventata la “nation animatice” a garanzia contro qualsiasi ingerenza degli USA anche in materia di sicurezza. Inoltre, le comunità Europee, così come congegnate, “avrebbero dovuto essere preservate” secondo de Gaulle, “da ogni contaminazione anglosassone”: il Regno Unito era considerato come “il cavallo di Troia” degli USA mediante il quale avrebbero esercitato la loro influenza sull’Europa in tutti i campi. Questa visione di de Gaulle certamente non coincideva, anzi risultava chiaramente ostile all’idea d’Europa dei francesi Monnet, Schumann e dell’italiano Spinelli insieme con i promulgatori del Manifesto di Ventotene, che miravano a forme federaliste, gradualmente più approfondite di integrazione economica e politica sovranazionale.

 

21 dicembre 1962. Patto di Nassau tra USA e Regno Unito in ambito NATO

C’è da premettere che il generale de Gaulle, nel 1958, aveva inviato un celebre memorandum al presidente statunitense Eisenhower e al primo ministro inglese Macmillan per una revisione dei rapporti nell’ambito dell’organizzazione atlantica (che aveva il difetto di essere sorta quando il generale non era ancora al potere). Il memorandum proponeva che la NATO fosse sottoposta alla guida congiunta di un direttorio delle tre potenze nucleari (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia). De Gaulle imputava ai suoi predecessori della IV Repubblica di aver concordato, nel trattato per la NATO, delle condizioni alienanti per la sovranità della Francia e aspirava a modificarlo (se ci fosse stato Lui ciò non sarebbe accaduto). Ma gli alleati angloamericani rifiutarono la proposta francese.

Nel 1962, a Nassau, dopo varie trattative, fu firmato un accordo bilaterale tra il presidente Kennedy ed il ministro degli esteri inglese Macmillan. Questo accordo   rappresenta il primo passo concreto verso l’obiettivo caro agli USA di una concreta integrazione atlantica nel campo degli armamenti nucleari. Gli USA forniscono alla Gran Bretagna i famosi missili Polaris che le consentiranno di mantenere in vita il proprio “deterrente” atomico.

In prospettiva, il trattato mira a sviluppare la concezione strategica degli USA con la creazione di un “deterrente “collettivo. Il grande assente nelle trattative fu De Gaulle che, tuttavia, fu interpellato da Kennedy che offri alla Francia le stesse condizioni della Gran Bretagna. Il riottoso e sospettoso De Gaulle che aveva una visione alquanto diversa, almeno per il ruolo della Francia, tenne in sospeso il progetto, fin quando, con molta riluttanza, accettò, ma alle condizioni delle sue proposte del 1958, dopo aver tenuto per lungo tempo “sulle spine” i suoi interlocutori.

Alla fine, fu stabilito un comando militare integrato della Nato tra Usa, Francia e Regno Unito, con sede a Parigi. Ma non durò molto: nel 1966, un combattivo e insofferente antiamericano De Gaulle, non condivide più il sistema di controllo dell’alleanza e delle armi nucleari. Decide, quindi, l'uscita della Francia dal comando militare NATO per poter perseguire un proprio programma di difesa non necessariamente dipendente da altri paesi e mantenendo la sua autonomia anche nelle scelte nel programma nucleare. Diciamo che, in realtà, De Gaulle non voleva che la Francia agisse sotto l’influenza americana in politica internazionale. Ricordo che i giornali dell’epoca scrissero, grosso modo, di “una porta sbattuta da De Gaulle in faccia agli americani”.  Non solo la porta sbattuta, ma tanti plateali dispettucci della Francia nei confronti dei militari USA della NATO, dei viaggiatori in arrivo in Francia dagli USA, ecc, di cui il sottoscritto, come tanti altri “marittimi” dell’epoca, fummo testimoni. Nel 1967, la sede del quartier generale politico della NATO venne trasferita a Bruxelles, mentre il quartier generale militare SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe), venne trasferito nella città di Mons. Va ricordato che la posizione assunta da De Gaulle venne rispettata anche dai suoi successori di qualunque “colore” e, di fatto, la Francia è rimasta fuori dalla NATO per 43 anni, fino al 2009, quando Sarkozy chiese ed ottiene il rientro. Così, la Francia, con tutta il “fardello” della sua storica “grandeur”, rientra nel comando integrato volendo riprendere il suo posto di paese fondatore della NATO, ma mantenendo l’indipendenza del proprio deterrente nucleare. E’storia dei giorni nostri.


La Francia ed il veto  alle richieste di  adesioni alle “Comunità Europee”

 

Tra il ’61 e il ’62, Irlanda, Regno Unito, Danimarca e Norvegia, presentano domanda ufficiale di adesione alle Comunità Europee.

Dopo il Patto di Nassau, nel 1963, il Presidente francese De Gaulle, riesce a convincere Adenauer a firmare il famoso trattato dell’Eliseo, che pone le basi per una stretta collaborazione fra i due paesi su tutte le principali questioni politiche, economiche e culturali. L’accordo è retoricamente motivato dalle molteplici affinità e interessi in comune tra le due Nazioni che, per intere generazioni, si erano “odiate e “scannate”. Ad onor del vero, va detto che il trattato pose termine al secolare conflitto fra le due Nazioni ma era ben chiaro che De Gaulle, ben compenetrato nella “grandeur de la France”, tentava di attrarre la Germania fuori dall’influenza americana mirando ad una leadership della Francia in Europa, escludendo il Regno Unito. Tuttavia, prima della firma del trattato, la Germania “volle” riconfermare la sua adesione all’Alleanza Atlantica, riconoscendo l’egemonia degli Usa, dopo che era stata costretta ad aderire al trattato di non proliferazione nucleare (per la “tranquillità” dell’URSS). De Gaulle, con la sua iniziativa non voleva rimettere in discussione il trattato di Roma ma tendeva chiaramente ad evitare che l’evoluzione della Comunità potesse inficiare la sovranità dei singoli Stati con il passaggio dal voto unanime al voto di maggioranza. L’apertura verso la Germania con la creazione di un’asse franco-tedesco e la contemporanea offensiva revisionista nei confronti della NATO appaiono come azioni complementari, in quanto manifestano il convincimento del Generale che l’obiettivo della Francia dovesse essere quello di acquistare un ruolo di centralità sull’Europa e riuscire così a contrastare l’egemonia mondiale di inglesi e statunitensi. Facendo coincidere le due iniziative, fu più difficile che si saldasse un fronte ostile alla Francia che potesse essere in grado di isolarla nel Continente.

Come se non bastasse, questo accordo fu seguito, pochi giorni dopo, il 29.01.1963, dal veto della Francia all’ingresso del Regno Unito nelle C.E. che valse anche per l'Irlanda, la Norvegia e la Danimarca.

 

La PAC: Politica Agricola Comune

Il Trattato di Roma del 1957, istitutivo delle Comunità Europee, già prevedeva una politica agricola comune il cui scopo fondamentale era quello di garantire una alimentazione adeguata ai cittadini europei. Nel 1958, a Stresa, fu decisa quale sarebbe stata la politica agricola del MEC (Mercato Europeo Comune): sviluppo mediante una stretta intesa tra agricoltura e società, a livello “comunitario”, perseguendo l’obiettivo di sostenere gli agricoltori e migliorare la produttività garantendo uno stabile approvvigionamento di alimenti a prezzi accessibili, indipendentemente dal livello del mercato mondiale. Viene creata una cassa comune alimentata dai proventi dei dazi doganali e ai prelievi agricoli. Una delle misure fu quello di stabilire il livello minimo dei prezzi (che generarono enormi eccedenze). La procedura era quella di pagare gli esportatori affinché vendessero tali prodotti all’estero. La Francia che disponeva, già in quegli anni, di immense risorse agrarie, costrinse, in tal modo, la Germania, ancora “invalida, a fare le spese delle eccedenze della “buona” agricoltura francese. La PAC, che ancora oggi una delle più importanti politiche dell'Unione Europea (le spese agricole rappresentavano circa il 45% del bilancio comunitario) prevede la creazione di una organizzazione comune dei mercati agricoli (Ocm) che si fondano sul rispetto dei principi dell'unicità dei mercati agricoli, della solidarietà finanziaria e della preferenza comunitaria. La sua elaborazione è soggetta alla procedura decisionale che prevede la maggioranza qualificata in sede di Consiglio e la consultazione del Parlamento europeo. (Inizialmente la PAC permise alla Comunità di raggiungere rapidamente l'autosufficienza ma, con l'andare del tempo, il suo funzionamento è diventato sempre più costoso a causa della sovrapproduzione e del livello eccessivo dei prezzi europei rispetto a quelli del mercato mondiale).

Dopo più di 60 anni, si può affermare che la politica agricola europea è stato il campo di prova più significativo per la misurazione del grado di raggiungimento dell’auspicata integrazione di cui ancora non si intravede la completa realizzazione.

 

La crisi alla CEE della “sedia vuota” della Francia “nazionalista” ad oltranza.

Seguendo gli avvenimenti in ordine cronologico, riparto da quanto accadde il 31 marzo del 1965: il primo presidente della Commissione Esecutiva, W.Hallestein, presentò, per l’approvazione del Consiglio, il suo regolamento finanziario riguardante l’agricoltura comunitaria per il periodo 1965-1970. Il piano di Hallstein prevedeva che, a partire dal 1° luglio 1965, sarebbero state le risorse proprie della CEE, a finanziare la PAC, in quanto, in un accordo del 1962, si era stabilito che questa sarebbe stata finanziata da contributi nazionali solo fino al 30 giugno 1965.

La Commissione avrebbe quindi controllato tutte le entrate derivanti dalla imposta esterna comune e, allo stesso tempo, fu riconosciuta la richiesta dell’Assemblea, già avanzata da alcuni anni, ma perennemente ostacolata dai francesi, di ricoprire un

ruolo maggiore nell’elaborazione del bilancio. Tale disegno rendeva la Commissione una sorta di Governo della Comunità per quanto riguarda il bilancio, in grado di guidare i progetti di spesa senza dover tenere conto della volontà dei singoli Stati

membri. Le proposte del presidente della Commissione europea vennero immediatamente giudicate come “un atto di autoritarismo e di usurpazione burocratica sovranazionale”. Ad amplificare l’avversione del Generale de Gaulle per le proposte di chiara impronta sovranazionale di Hallstein, contribuì anche l’estensione, prevista dai trattati di Roma, del ricorso alle votazioni a maggioranza qualificata per le decisioni del Consiglio dei ministri su determinate materie, a partire dal 1° gennaio 1966, escludendo quindi la possibilità da parte di ciascuno degli Stati membri di porre il veto, come invece era reso possibile dalla procedura, fino a quel momento in vigore, di voto all’unanimità. Infatti il problema del voto a maggioranza o all’unanimità divise le due posizioni, antitetiche, che si vennero a configurare per quanto riguarda le modalità che avrebbe dovuto assumere il processo di integrazione europea: quella finalizzata alla cooperazione intergovernativa di stampo confederale personificata, in Francia, negli anni ’50-’60, dal Generale e quella federalista alla Spinelli guidata dal progetto di creare una comunità europea federale, che vide, in quegli anni, come uno dei principali sostenitore, Walter Hallstein.

In definitiva, furono introdotte riforme interne alle organizzazioni comunitarie che attribuivano enorme potere alla Commissione, rafforzavano i poteri del Parlamento Europeo e prevedevano l’attribuzione alla Comunità di risorse proprie.

Il criterio di voto all’unanimità presuppone la ricerca del consenso di tutti gli Stati membri a qualunque costo, ed è l’altra faccia della medaglia del potere di veto che gli stati membri conservano come più potente arma per tutelare gli interessi nazionali più importanti. Il voto a maggioranza, invece, costituisce la procedura decisionale principalmente seguita dalle istituzioni di uno stato democratico e, per essere efficace, la decisione finale deve enucleare una maggioranza e una minoranza.

Ma questo concetto de Gaulle non poteva certamente accettarlo: i francesi rifiutarono la proposta che la PAC fosse finanziata da risorse proprie, affermando che sarebbero dovuti essere, invece, i singoli Stati membri a continuare a finanziare la spesa della Comunità. I principali stati federalisti cioè Olanda, Italia e Germania si scagliarono contro la proposta francese e insisterono affinché quanto avanzato dalla Commissione venisse accettato. L’intransigenza dei due schieramenti opposti rese impossibile il raggiungimento di un accordo sul finanziamento della PAC. Durante il vertice del 28-30 giugno, dopo i “veti incrociati”, il ministro degli Esteri Couve de Murville, presidente di turno, dichiarò lo scioglimento della seduta.

Per i francesi, ormai, non era più in gioco solamente la politica agricola, ma si trattava a tutti gli effetti di un’offensiva contro la Commissione, e non si poteva in alcun modo lasciare che un organo non dotato di legittimazione politica potesse decidere sulla vita e sull’industria francese, e, per quanto riguarda il criterio di voto a maggioranza, appariva necessaria una modifica dei trattati di Roma in quanto nessun altro all’infuori del popolo francese avrebbe dovuto poter prendere decisioni sugli interessi vitali della nazione.  Il 1° luglio 1965 il governo francese dichiarò di prendere atto della crisi e di farsi carico delle conseguenze che ne sarebbero derivate. Il 6 luglio la Francia ritirò il suo rappresentante permanente a Bruxelles, e ordinò ai ministri del Consiglio e ai membri francesi della Commissione di astenersi dalle sedute comunitarie. Il 16 luglio alla seduta del Consiglio Europeo, spiccava e veniva ripresa dai media, la “sedia vuota” (la chaise vide) del rappresentante francese che segnava l’inizio della crisi che rappresentava la più pericolosa battuta d’arresto della CEE.

 

Il Compromesso del Lussemburgo: “L’accordo sul disaccordo”

 

La crisi della “sedia vuota” e il blocco di fatto delle attività della CEE, durò dal 30 giugno 1965 fino al 29 gennaio del 1966, quando dopo lunghe trattative, i rappresentanti dei sei governi degli Stati membri della CEE, sottoscrissero il cosiddetto Compromesso che molti definirono “L’accordo sul disaccordo” (constat des desaccords). Checché se ne dica, il compromesso segnò, di fatto, il ritorno alla regola dell’unanimità per le questioni importanti, e bloccò, da allora, fino ai giorni nostri, il passaggio, da molti auspicato, ad un sistema maggioritario, di ispirazione sovrannazionale. La costruzione europea rimase quindi ferma ad una “cooperazione intergovernativa. In altre parole, “un singolo Governo, agendo con determinazione, aveva imposto la propria volontà alla Comunità e aveva assicurato che i Governi degli Stati membri, e non le istituzioni comunitarie, restassero i principali responsabili delle decisioni per la Comunità”.

Questo evento, fu visto da molti contemporanei, non come un “compromesso” ma come una vittoria della Francia anche se non fu intaccato il Trattato istitutivo che de Gaulle avrebbe voluto emendare. Infatti l’accordo non costituì una “deliberazione formale”: non entrò mai a far parte del Trattato CEE e, ancora oggi, è considerato, come un “documento di natura politica ed extra-giuridica”.  Oggi possiamo tuttavia dire che segnò l’inizio di una stagnazione nello sviluppo della integrazione comunitaria, stabilendo una separazione netta tra il dinamico periodo iniziale della comunità ed il periodo fino agli anni ’80.

 

Considerazioni finali

 

Ma cosa è rimasto, ancora oggi, di quell’evento della “sedia vuota”? Nonostante i progressi fatti verso una maggiore integrazione, tra cui la creazione dell’Unione Monetaria e dell’Euro, la “stagnazione” dell’integrazione politica, resta, con una Costituzione Europea, ancora “legata al palo”, a torto o a ragione. La filosofia di de Gaulle, basata sul rifiuto di una qualunque subordinazione agli USA e sull’opposizione a quella che Lui definiva una “deriva sovrannazionale” in sede “Comunitaria”, è attuale, ancora oggi, alla luce dell’emergente nazionalismo, della necessità, sempre più avvertita, di una maggiore coesione in ogni campo e di una forza militare tutta Europea. Cosa direbbe oggi un de Gaulle   di fronte al ben evidente graduale disimpegno degli USA nonostante la sopravvivenza della NATO? C’è qualcuno, che osa pensare che, forse, oggi, una Comunità ispirata da alcuni principi di de Gaulle, riveduti e corretti, senza velleità egemoniche nazionali, potrebbe riscuotere maggior rispetto e considerazione nel mondo? Una Comunità più “svincolata” da quei poteri non troppo occulti, che tanto ci condizionano in nome di una “globalizzazione “di origine neo-liberista che rischia di diventare il vero “potere sovrannazionale” se non si pone un rimedio nei singoli “blocchi”.  Non dovremmo dimenticare che il nostro “blocco” resta “l’Europa” che ancora potrebbe aspirare a divenire “terzoforzista” e “nazionalista” per contrastare l’invadenza degli altri “blocchi”. Intanto, noi italiani, siamo ancora, di fatto, “membri passivi” o “dormienti” di un’Europa “forte con i deboli (vedi Grecia, Italia, ecc, tra 2008 e 2013) e “debole con i forti” (vedi rapporti con Russia, Cina, Turchia, Usa) A questo punto non vorrei essere stato poco chiaro o frainteso. Concludo quindi evidenziando tre termini che sono l’espressione dei “processi decisionali” di Popoli, Nazioni, Aggregazioni o Comunità di Stati. Tre “vocaboli” ormai ben noti a tutti: sovranismo, nazionalismo, sovra-nazionalismo. Solo il giusto equilibrio e la logica tempistica tra i relativi “processi” potrà aiutarci a realizzare, nell’Europa che conosciamo, quella unione che ancora “desideriamo”, nonostante tutto. Già; perché ritornare indietro, dal punto in cui siamo, sarebbe quasi impossibile. Chiarisco ancora che, quando dico “sovranismo”, mi riferisco ad una sovranità “Europea” derivante da una integrazione dell’Unione fino ad arrivare ad una forma di Stati Uniti D’Europa, così come concepita all’inizio. Magari con una estensione dall’Atlantico agli Urali. Pura utopia?

L’Euro può aspettare. Arriverà: spero di essere sulla strada giusta, circondato dalla pazienza e comprensione di chi mi legge.

 

 

PARTE QUARTA

 

Le adesioni alle Comunità Europee e le varie tappe verso l’integrazione

Il 30 gennaio del 1966, con la firma del Compromesso di Lussemburgo si conclude la “crisi della sedia vuota” e si dà avvio alla terza e ultima tappa del periodo transitorio previsto dal Trattato di Roma  del 1957 (istituzione CEE e CE).

1967 : nel mese di maggio, Regno Unito, Irlanda e Danimarca seguite, a luglio, dalla Norvegia, presentano di nuovo la domanda ufficiale di adesione alle Comunità Europee e restano “in lista di attesa”.

1968 :  il 1º luglio: grazie alla lunga fase di espansione economica degli anni sessanta, il periodo transitorio di 12 anni previsto dal trattato CEE si conclude con 18 mesi di anticipo. Con l'abolizione delle ultime barriere doganali tra gli Stati membri e lo stabilimento di una tariffa esterna comune nasce il Mercato Europeo Comune (MEC).

1969:1-2 dicembre: su proposta del neo presidente della Repubblica francese Georges Pompidou, a L'Aia si tiene una conferenza dei capi di Stato e di governo dei sei paesi membri della CEE, i cui obiettivi sono sintetizzati nello slogan "allargamento, completamento, approfondimento".

1972 : 22 aprile: in Francia si tiene il referendum sull'allargamento della CEE con esito positivo. Tuttavia, solo un terzo degli elettori registrati ha approvato la proposta.

Il 25 settembre dello stesso anno, si svolge il referendum in Norvegia, sull'adesione alle Comunità Europee, che dà esito negativo.

1973 : Primo allargamento con l'adesione di Danimarca, Irlanda e Regno Unito gli Stati membri delle Comunità europee diventano 9. Solo Irlanda e Danimarca convalidano l’adesione con un Referendum.

1975, 5 giugno: nel Regno Unito si svolge il referendum per la permanenza nelle CCCEE, con esito positivo.

1976, 1dicembre: il Consiglio Europeo decide la data della prima elezione a “suffragio universale diretto” del Parlamento Europeo che avverrà nel mese di giugno 1979.

1979, 13 marzo. i paesi della CEE, tranne la Gran Bretagna, firmano l‘accordo istitutivo dello SME (Sistema Monetario Europeo).

7-10 giugno 1979: in Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito si svolgono le prime elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento Europeo.

1981, 1gennaio: secondo allargamento. La Grecia è ammessa nelle Comunità dopo 6 anni di attesa. Gli stati membri delle Comunità diventano 10.

19 giugno 1983: i Capi di Stato e di Governo approvano la “Dichiarazione solenne sull'Unione Europea”.

14 febbraio 1984: il Parlamento europeo approva, su impulso di Altiero Spinelli, il "Trattato che istituisce l'Unione europea", poi non adottato dal Consiglio dell'Unione

1985,1º febbraio: la Groenlandia, parte del regno di Danimarca, lascia le Comunità Europee mediante un referendum popolare, restandovi associata come “territorio d'oltremare”.   

14 giugno 1985: accordo di Schengen tra: Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi che aboliscono i controlli sistematici delle persone alle frontiere interne delle CE.

1986, 1gennaio: Portogallo e Spagna vengono ammesse alle CCEE dopo 4 anni di attesa.  Gli stati membri diventano 12

17 febbraio 1986: l’AUE (Atto Unico Europeo) viene firmato a Lussemburgo, soltanto da 9 Stati membri. Lo stesso Atto venne poi firmato, all’Aia il 28 febbraio anche dai membri mancanti Grecia, Italia e Danimarca. Il ritardo della firma fu dovuto, come sotto spiegato, a divergenze sorte tra i membri poi risolte con compromessi.  Entrato in vigore il 1° luglio 1987, fu il risultato di un grande tentativo di riforma del Trattato di Roma del 1957 relativo alla Costituzione della CEE (Comunità Economica Europea) e CEEA (Comunità Europea dell’Energia Atomica) o (Euratom), la cui necessità era andata delineandosi sempre più chiaramente nel corso degli anni.

1987: La Turchia presenta la domanda ufficiale di adesione alle CCEE. Pur essendo Membro associato della CEE, già dal 1963, il riconoscimento ufficiale, come stato candidato all'adesione, avvenne dopo più di dieci anni, nel 1999, mentre i negoziati iniziarono nel 2005. I progressi sono stati molti lenti. Dei 35 capitoli sui singoli temi riguardanti l’adesione ne sono stati aperti solo 16 e solo uno è stato chiuso. In seguito al colpo di stato del 15 luglio 2016 i negoziati sono stati di fatto interrotti e nessun nuovo capitolo è stato aperto da allora. Allo stato attuale, come è ben noto, i rapporti con la UE continuano tra tensioni, cooperazione e ricatti.

1989: primo referendum consultivo in Italia per la Costituente Europea

19.06.1990 viene firmato il trattato di applicazione dell’accordo di Schengen, con efficacia dal 1995. L’Italia firmò l’accordo del 1985 soltanto il 27.11.1990 quando acquisì i requisiti necessari. 

29 gennaio 2020. “Brexit”, uscita del Regno Unito dall'UE: Accordo di recesso, ratificato dall'UE e dal Regno Unito, entrato in vigore il 1° febbraio 2020, per gestire l'uscita del Regno Unito dall'UE in maniera ordinata, a tutela di cittadini e imprese.

A partire dalla mezzanotte del 31 gennaio 2020, il Regno Unito non è più uno Stato membro dell'UE ed è considerato un Paese terzo.

L'intesa recepisce pienamente le priorità italiane, a partire dalla tutela dei diritti dei cittadini e dalla protezione delle indicazioni geografiche, per arrivare al regolamento delle pendenze finanziarie britanniche nei confronti del bilancio UE e alle prospettive di un partenariato economico e di sicurezza profondo e ambizioso tra l'UE e il Regno Unito dopo la Brexit.

Esaminando i comportamenti dell’Inghilterra, dal dopo- guerra ad oggi, il consuntivo non è molto edificante. Da cittadino “europeo”, affermo, con consapevole presunzione che, l’Inghilterra, con la sua posizione “di un piede dentro ed uno fuori” in funzione dei suoi esclusivi interessi e del suo “retaggio imperiale”, è stata, per lo più ,” una palla al piede per l’Europa”, creando non pochi ostacoli e difficoltà con la sua boriosa idea di “Supremacy” sugli altri Stati. E allora ripenso a quando de Gaulle definì il Regno Unito “un cavallo di Troia” lasciato dagli USA in Europa… 

Nel 2021, l’area Schengen comprendeva 26 paesi: 22 paesi UE e quattro paesi extra-UE (Islanda, Norvegia, Svizzera, Liechtenstein. Cinque paesi UE non ne fanno parte: Irlanda, Bulgaria, Croazia, Cipro e Romania.

 

Parlamento Europeo


Dopo l’istituzione delle tre Comunità europee (CECA 18.04.51, CEE 25.03.57 EURATOM 25.03.57) l’Assemblea comune della CECA, che riuniva rappresentanti parlamentari degli stati membri. fu estesa a tutte e tre le comunità. La nuova assemblea si riunì per la prima volta Strasburgo, il 19 marzo del 1958, con il nome di “Assemblea parlamentare europea” ed era composta da 142 membri. A partire dal 30 marzo del 1962, detta assemblea fu nominata “Parlamento Europeo”.  Anche cambiando il nome si trattava ancora di una Assemblea “designata”: i membri non erano eletti dal Popolo ma venivano designati dai parlamenti nazionali di ciascun paese membro. Tutti i deputati avevano quindi un doppio mandato. Tra le alterne vicende che interessarono l’Europa e il mondo intero, la vita delle Comunità fu contraddistinta da iniziative non tutte andate a buon fine, lunghe trattative di stampo internazionale e divergenze insanabili. Trascorsero ben 14 anni, tra Consigli, Vertici, Conferenze e studi per giungere ad un accordo, il 12-13 luglio 1976, in cui veniva decisa” l’elezione dei rappresentanti nell’assemblea a suffragio universale” previa ratifica da parte di tutti gli Stati membri. L’atto entrò in vigore nel 1978 e, il 7-10 giugno, in: Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito, si svolgono le prime elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento Europeo.

Agli occhi degli osservatori esterni e soprattutto dei “federalisti” di Altiero Spinelli la situazione creata si presentava paradossale: si era creato un parlamento prima ancora che ci fosse una Comunità autonoma o qualunque altra realtà che potesse avere la parvenza di uno Stato, confederato o non. Per tutti coloro che guardavano avanti, questo risultato era comunque già un passo avanti raggiunto sul lento percorso dell’Unione: una inesistente Europa che aveva già un Parlamento!


Segnali di risveglio dallo stallo della integrazione europea


Siamo, ormai, gli inizi degli anni ’80. Il processo di integrazione europea, a circa 30 anni dal l’istituzione del Consiglio d’Europa e della CECA, viveva una situazione di stallo ed era necessario un rinnovato impulso per affrontare le nuove sfide e la mutata realtà europea anche nel contesto geopolitico internazionale. La Comunità aveva compiuto significativi progressi in campo economico, ma era sempre più evidente la necessità di un rafforzamento della cooperazione tra gli Stati membri anche in vista di un ulteriore allargamento e l’assunzione di maggiori responsabilità.

 

 

  Hans D.Genscher
                      Ministro degli esteri tedesco                              Emilio Colombo

 Hans D.Genscher Ministro                         Emilio Colombo massima espressione  italiana

 degli esteri tedesco                            dell’impegno europeo voluto da De Gasperi

                                                          

 

In questo periodo i ministri degli esteri Colombo (Italia) e Genscher (Germania), si trovarono, in diverse occasioni e senza alcuna concertazione tra di loro, ad esprimere le stesse idee e la stessa visione di iniziative volte a raggiungere una forma più concreta ed incisiva di collaborazione politica. La convergenza delle loro idee portò ad una iniziativa coordinata tra i due Ministri che sfociò nel” Piano Colombo-Genscher” che fu sottoposto, il 19 novembre 1981, al Parlamento Europeo di Strasburgo.

Al ministro degli esteri italiano Emilio Colombo toccò la presentazione del progetto italo-tedesco al Parlamento Europeo riunito di Strasburgo il 19 novembre 1981. L’iniziativa fu presentata come una sollecitazione all’avvio di una nuova fase dinamica della costruzione europea che scaturiva dalla necessità di far fronte agli urgenti problemi di ordine economico, monetario e politico nei confronti dei quali “l’Europa deve assumere una propria iniziativa, dotarsi di una propria strategia, divenire per conseguenza sempre più un’entità politica”.

Colombo fu molto determinato nell’evidenziare la necessità che l’Europa divenisse sempre più un’entità politica. In tale prospettiva, diveniva sempre più urgente e necessario rilanciare il processo di integrazione europea “dormiente”. E ciò si poteva conseguire soltanto con una più fattiva cooperazione nei settori della sicurezza, cultura e diritto, rafforzando le istituzioni europee e migliorandone il processo decisionale. Secondo la visione lungimirante di Colombo, che ricalcava quella dei “padri fondatori” l’attuazione di queste indicazioni gli aspetti politici, economici e monetari si sarebbero sostenuti a vicenda. “Occorre vieppiù impegnarsi per la realizzazione, sia pure con la dovuta gradualità, dell’unione economica e monetaria, la quale contribuirà in maniera determinante a rafforzare i vincoli esistenti tra i nostri paesi.” L’Atto Colombo-Genscher fu presentato anche al Consiglio Europeo che si tenne a Londra il 26 e 27 novembre dello stesso anno.


Dichiarazione solenne sull’Unione Europea a Stoccarda nel 19 giugno 1983

 

Il Piano Colombo-Genscher fu determinante nella elaborazione della “Dichiarazione Solenne sull'Unione Europea” che fu approvata, a Stoccarda, dai Capi di Stato e di Governo durante il Consiglio Europeo del 19 giugno del 1983.

La Dichiarazione di Stoccarda elenca le istituzioni dell’Unione, prevede il ripristino della procedura di votazione a maggioranza qualificata, dispone che, relativamente alla cooperazione politica, i governi dovranno cercare di «facilitare il processo di decisione al fine di raggiungere il più rapidamente possibile delle posizioni comuni». Inoltre, vi si definisce il campo di azione dell’Unione europea sui piani comunitari: politica estera, cooperazione culturale, ravvicinamento delle legislazioni.

Nel mese di giugno del 1984, in occasione del Consiglio d’Europa riunito a Fontainebleu, furono istituiti due comitati di esperti, con il compito di esaminare i progetti inclusi nella “Dichiarazione Solenne” dell’anno prima:

1. “Comitato Dodge”, dal nome del Senatore irlandese James Dodge che lo dirigeva, composto da rappresentanti personali dei capi di Stato e di Governo, per formulare suggerimenti al fine di potenziare il funzionamento della cooperazione comunitaria.

2."Comitato Adonnino", dal nome del prof, avvocato Pietro Adonnino incaricato di preparare la realizzazione dell'"Europa dei cittadini", cioè per il rafforzamento dell'identità e dell'immagine delle Comunità e avvicinare le istituzioni agli europei. In particolare, il comitato proponeva un sistema elettorale uniforme, di facilitare il diritto di petizione del cittadino, l'istituzione di un difensore civico europeo, il riconoscimento del diritto elettorale attivo e passivo nelle elezioni locali ed europee ai cittadini degli altri Stati membri, di avviare scambi di studenti e di giovani, di incrementare la cooperazione universitaria e istituire un sistema europeo di crediti accademici trasferibili in tutta la Comunità,


Non solo Colombo-Genscher, Dodge-Adonnino ma ancora Altiero Spinelli.


Tra le varie forze intellettuali in campo per dare un rinnovato impulso ad una Comunità quasi “impigrita” era ancora presente e attivo Altiero Spinelli, uno degli attori politici principali sulla scena europea e tra i primi membri del Parlamento. Spinelli era l’instancabile fautore e sostenitore di una Europa più coesa e, magari, confederata, da tutti rispettato ma da molti anche avversato. Alcune idee di Spinelli indicavano la prospettiva di una Comunità Europea che, se realizzata, avrebbe potuto creare qualche preoccupazione agli USA e alle due “grandi potenze” europee quali il Regno Unito tronfio ella sua “Supremacy” e la Francia, con la sua storica idea di “Grandeur“.Ebbene, Spinelli, in questi ultimi anni di “lievitazione” dell’Unione, anche lui aveva elaborato , con il suo “gruppo del Coccodrillo” un progetto di “Trattato per la Realizzazione dell’Unione Europea” che non differiva molto dagli altri progetti tranne che per una più marcata configurazione federativa.

Il 14 luglio del 1984, mentre le due commissioni volute, a Fontainebleu, dal Consiglio d’Europa, esaminavano i progetti inclusi nella “Dichiarazione Solenne sull’Unione Europea”, il Parlamento europeo aveva adottato ad ampia maggioranza, il progetto di Altiero Spinelli che fu considerato “un passo notevole verso una federazione europea”. Ma, durante il Consiglio Europeo di Milano del 28-29 giugno 1985, ecco apparire l’anomalia che, rivela ancora oggi, l’incapacità di raggiungimento di una più perfetta integrazione tra gli Stati, privilegiando gli interessi singoli rispetto a quelli comuni. In quella sede, i Governi convenuti, semplicemente, ignorarono il trattato approvato dal Parlamento, né seguirono tutte le raccomandazioni dei “Comitati” che essi stessi avevano creato e che, badate bene, nella loro maggioranza, si ispiravano, già ampiamente, al progetto Spinelli.

Nella prossima puntata riprenderemo il “cammino” dal Consiglio Europeo di Milano del 28-29 giugno 1985 e dallo storico “Atto Unico Europeo”. Ma come vedremo siamo ancora ben lungi dalla meta, come evidenziato in premessa.

 

PARTE QUINTA

 

Come abbiamo già descritto, nel Consiglio di Stoccarda del 19 giugno 1983, i Capi di Stato e di Governo proclamarono la “Dichiarazione solenne sull’Unione Europea”.

La Dichiarazione elencava le istituzioni dell’Unione, prevedeva il ripristino della procedura di votazione a maggioranza qualificata, disponeva che, relativamente alla cooperazione politica, i governi dovevano cercare di «facilitare il processo di decisione al fine di raggiungere il più rapidamente possibile delle posizioni comuni». Inoltre, vi si definiva il campo di azione dell’Unione su: politica estera, cooperazione culturale e ravvicinamento delle legislazioni. In definitiva, dopo anni di “impasse” del processo integrativo, ecco emergere tanti buoni propositi e ambiziosi progetti.

In questa ottica, il Parlamento europeo, fin dalla sua istituzione, aveva perseguito costantemente l’obiettivo di una Costituzione europea. E’del Parlamento europeo il primo progetto di Costituzione, elaborato sotto l'impulso e col contributo determinante di Altiero Spinelli. Il Parlamento, il 14 febbraio 1984, a Strasburgo, aveva approvato il “Progetto di Trattato per la Realizzazione dell’Unione Europea” a larga maggioranza (237 voti su 311 a favore del Trattato; 31 contrari e 43 astensioni). Tale progetto, noto come “progetto Spinelli”, fu concepito da Altiero Spinelli insieme a “quelli del Coccodrillo” (un club di parlamentari Europei che erano soliti riunirsi nel ristorante “Crocodile” di Strasburgo. Iniziarono nell’80 con 9 membri, arrivando, l’anno dopo, a 180). Il progetto Spinelli era stato elaborato dalla Commissione Istituzionale del Parlamento Europeo presieduta da Mauro Ferri (PSDI). Il testo prevedeva un sistema di istituzioni comunitarie fondato su principi chiaramente definiti e validi ancora oggi, i.e.:

impegno a rispettare e promuovere i valori umani propri della civiltà democratica;

rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini;

regola della sussidiarietà;

riconoscimento esplicito della preminenza del diritto dell’Unione sul diritto degli Stati membri;

partecipazione effettiva dei cittadini dell’Unione e degli Stati membri alla formulazione delle decisioni;

attuazione delle decisioni comuni a livello più vicino possibile ai cittadini, ma nel contesto di un potere generale di esecuzione e di controllo da parte delle competenti istituzioni dell’Unione.

Dal punto di vista istituzionale il progetto di Trattato delineava una vera e propria struttura confederale fornita di una cittadinanza propria, di un proprio territorio e di una autonoma personalità giuridica.

Per il perseguimento dei propri obiettivi l’Unione disponeva di due strumenti:

a) l’azione comune, cioè l’azione dell’Unione attraverso gli strumenti giuridici ed operativi previsti dal Trattato;

b) la cooperazione tra gli Stati attraverso il Consiglio Europeo.

Il Parlamento e il Consiglio dell’Unione costituivano i due rami dell’autorità legislativa, finanziaria e di controllo politico dell’Unione.

Il Consiglio Europeo, nettamente distinto dal Consiglio dell’Unione, restava composto dai capi di Stato e di Governo degli Stati membri e dal Presidente della Commissione, cui spettava essenzialmente il compito di sviluppare il metodo della cooperazione e di decidere, sulla base del principio di sussidiarietà, eventuali trasferimenti di materie soggette alla cooperazione o al metodo dell’azione comune. Esso aveva anche diritto a proporre il Presidente della Commissione, che doveva però chiedere l’investitura al Parlamento. Il progetto non intendeva rivoluzionare o cambiare in toto i Trattati di Roma del 1957, ma di fornire ad essi un “indirizzo” in alcuni campi, come in materia di difesa o di politica estera, che rimanevano sostanzialmente esclusi dall’intervento della Comunità. Infatti già nel 1982, quando si cominciò a parlare del progetto di Costituzione, il Parlamento affermava “la necessità che la Comunità, di fronte all'aggravarsi dei conflitti internazionali, svolga finalmente appieno la funzione che le compete sul piano mondiale, operando cioè come elemento catalizzatore per la pace e lo sviluppo". E Altiero Spinelli, relatore, così motiva: "A lungo - per decenni - abbiamo lasciato che in questo campo le responsabilità dominanti del nostro destino restassero nella mani del grande alleato americano, riservando a noi europei un ruolo ausiliario".

Sorprendentemente, nel Consiglio di Fontainebleau del 25-26 giugno del 1984, che doveva esaminare i progetti contenuti nella “Dichiarazione di Stoccarda”, il “Progetto di Trattato” già approvato dal Parlamento, non fu neanche menzionato.

I convenuti istituirono i due comitati Dodge e Adonnino di cui abbiamo già scritto nella puntata precedente, per esaminare i progetti contenuti nella Dichiarazione. Anche a distanza di tempo, agli occhi di qualunque osservatore, informato e non, appare chiaramente che il Parlamento svolgesse in questa vicenda, e non solo, un ruolo marginale, di consulenza, completamente “staccato” dal Consiglio dei Capi di Stato e di Governo.

Come sopra menzionato, sia la “Dichiarazione solenne” che il “Progetto di Trattato sull’Unione europea” erano ricchi di idee concretamente realizzabili ma, purtroppo, il potere di adottarlo o rigettarlo stava nelle mani dei Governi degli Stati membri, che non fecero nessuna delle due cose. Nei mesi successivi, il Trattato sull’Unione europea non comparve all’ordine del giorno degli Stati membri. I Governi semplicemente scelsero di ignorarlo. (Qualcuno commentò che “l’Europa aveva fatto, dopo un’impasse di 20 anni, 2 passi in avanti e, poi, 3 passi indietro) Tuttavia alcuni Governi erano coscienti della necessità urgente di riformare le Comunità e, a Fontainebleu, tuttavia, oltre all’istituzione dei due citati Comitati, si crearono le basi per discutere fattivamente di una riforma dei trattati esistenti nel Consiglio Europeo previsto a Milano per il mese di giugno del 1985.



Il Consiglio Europeo di Milano 28-29 giugno 1985


Mi rendo conto che gli approfondimenti che seguono, seppure non esaustivi, mentre sembrano un anticipo delle conclusioni, potrebbero “appesantire” questa mio excursus cronologico. Ritengo tuttavia indispensabile evidenziarli come un esempio di comportamenti ostili e dilatori da parte di alcuni membri, non necessariamente sempre gli stessi, con posizioni mutabili in funzione di individuali convenienze. Tutto ciò mostrando la massima incoerenza con lo “spirito fondante dell’Unione”.Succede che, di fatto, ieri, come oggi, mentre le Comunità, animate dai buoni propositi e dagli antichi progetti sempre attuali, sembrano lanciate, a piè sospinto, verso una più perfetta e, ahimè, utopistica integrazione, in realtà, tra una impasse e l’altra, si fa un passo avanti e mezzo passo indietro. E, con questo “andazzo”, abbiamo avuto la capacità di creare un “simil mostro” chiamato “Europa”, col corpo da gigante e le gambe di argilla. Un gigante “economico” con regole, parametri e burocrazia, come definito da molti, e allo stesso tempo, un nano politico (e militare). Tutto ciò sotto una anacronistica e “sbilanciata” tutela degli USA da cui, quel “mostro” sopradescritto, avrebbe dovuto svezzarsi da lungo tempo se non avesse subito una crescita così squilibrata e innaturale.

Ciò perché permane una varietà di interessi e di egoismi nazionali, supportati da un falso “equivoco lessicale” tra sovranismo e nazionalismo, che emerge ogni qualvolta si perde di vista “l’interesse comune” o che la debolezza o l’inadeguatezza di qualche “delegato” intorno al tavolo, consente decisioni che poi si rivelano favorevoli a pochi e dannose per molti, con insensati e pericolosi effetti dilatori sui classici obiettivi.

Significativo è l’esempio della Brexit con cui La Gran Bretagna, ha rimosso il suo “piede” dal Continente, non solo in rispetto alla sua “insularità”, ma perché da sempre, nella sua presunzione (o realtà) di “grande potenza” preferisce giocare un ruolo tra le altre “grandi” potenze mondiali e non in un partenariato con le Comunità Europee (vedremo come va a finire). La mia riflessione non vuole essere un anticipo delle conclusioni ma, purtroppo, questa è la musica che accompagna la marcia verso l’integrazione. Dovremmo essere tutti uguali ma, nel corteo in marcia verso l’integrazione, c’è sempre qualcuno che si ritiene “più eguale “a discapito degli altri”.

 

Il mandato alla presidenza Italiana del primo semestre 1985


Il Consiglio Europeo di Fontainebleu del 25-26 giugno del 1984, chiuse il semestre francese sotto la presidenza di Mitterand. La presidenza per il secondo semestre, dell’84 andava all’Irlanda; l’Italia avrebbe avuto la presidenza per il primo semestre del 1985. Ebbene, a Fontainebleau, fu dato mandato alla presidenza italiana di esaminare il lavoro dei Comitati e pervenire a soluzioni più concrete per i problemi istituzionali, processi decisionali, cooperazione politica e per il mercato libero interno paralizzato dopo le crisi economiche degli anni ’70.  Le Commissioni lavorarono alacremente durante il “semestre irlandese”, in vista del Consiglio Europeo programmato per la fine di giugno del 1985, a Milano, sotto la presidenza italiana di Bettino Craxi (presidente del Consiglio dei ministri) coadiuvato da Giulio Andreotti, ministro degli esteri.

Lo scenario che si prospettava alla vigilia della presidenza italiana era assai complesso. Per la prima parte del semestre, l’attenzione era stata assorbita dai negoziati con la Spagna ed il Portogallo conclusi solo il 12 giugno 1985 con la firma dei trattati di Madrid e di Lisbona. Le trattative avevano rischiato di paralizzare ogni attività comunitaria essendo strettamente connesse alla questione del rimborso del bilancio al Regno Unito e del sistema delle risorse proprie.

Questi problemi vennero affrontati e risolti nel corso del Consiglio Europeo di Bruxelles nel mese di marzo del 1985, quando furono presentate le relazioni dei Comitati Dodge e Adonnino.

Le vaghe indicazioni scaturite dal Consiglio Europeo di Bruxelles rimettevano interamente nelle mani della presidenza italiana il compito di individuare quelli che avrebbero dovuto essere i temi di accordo per il successivo Consiglio di giugno. Alle perplessità e reticenze di alcuni Stati membri, si aggiungeva il mutato atteggiamento di Francia e Germania, il cui fervore europeista era andato via via scemando: difficilmente si sarebbe raggiunto l’obiettivo di procedere a una riforma radicale dell’assetto istituzionale comunitario mediante la redazione di un nuovo Trattato secondo le decisioni di Fontainebleau.

 

I timori e le “remore” per un “passo nel buio”.

Va detto che alla vigilia del Consiglio Europeo di Milano, oltre ad una grande incertezza, si era anche diffuso il timore tra i rappresentanti di alcuni Stati membri che, dagli studi dei Piani presentati, dalle varie proposte ed iniziative affluite, potesse emergere qualche idea che, apportando benefici alla Comunità, avrebbe potuto, in qualche modo, ledere gli interessi di qualcuno di loro che si riteneva privilegiato (direi per un “vizio d’origine”). In realtà, c’è sempre stata una disparità di fatto, tra i “Paesi fondatori” contrassegnata da un “blasone” di cui si fregiava soprattutto la Francia, una delle ”grandi  potenze vincitrici” del secondo conflitto mondiale, nonché “potenza nucleare” grazie agli USA; l’Inghilterra, ancora più blasonata per gli stessi motivi, che le permettevano di mantenersi con un “piede dentro ed uno fuori”, forte anche del suo rapporto privilegiato con gli USA  ; i paesi del Benelux con la loro “latente” potenza economica; la Germania, agli inizi sotto tutela degli USA, ma pronta a  dispiegare tutte le sue  nuove potenzialità. Tutto ciò mentre l’Italia, fiera del mandato ricevuto e forte del ruolo avuto nell’ideazione e progettazione di una Europa unita, faceva sentire la sua voce grazie alle idee ed all’impegno dei successori di de Gasperi ed a personaggi di ogni estrazione politica (vedi Altiero Spinelli).  Ciò nonostante, l’Italia veniva a stento tollerata da alcuni che volevano mantenerla “con le vele basse” in quanto non avrebbe dovuto neanche sedersi attorno al “loro” tavolo. Come se non bastasse, Regno Unito, Grecia e Danimarca, con un approccio “pragmatico” manifestavano, apertamente comportamenti radicalmente contrari al rilancio dell’Unione Europea propugnato dai sei paesi fondatori.

Come se non bastasse, sorgono due iniziative inaspettate: il cancelliere Helmut Kohl annuncia dinanzi al Bundestag la presentazione a Milano di un progetto franco-tedesco di Trattato Europeo fortemente orientato alla costruzione di un'area di "sicurezza comune" anche attraverso un collegamento con l'UEO. Inoltre, la delegazione britannica presenta un documento che, ripetendo le idee già espresse a Fontainebleau, ribadiva l'obiettivo britannico di impedire un rafforzamento politico della CEE (!!).

Ma l’Italia, in quegli anni governata dal “Pentapartito”, con Craxi presidente del consiglio e Andreotti, ministro degli esteri, decise di giocare bene “le sue carte europeiste” nel mandato ricevuto dal Consiglio Europeo. Craxi e Andreotti, con loro collaboratori, ad ogni livello, cominciarono una intensa opera di persuasione attivando colloqui bilaterali che ebbero un effetto straordinario almeno sui “paesi Fondatori”. Oltre al perdurante attivismo di Spinelli ed ai contatti diretti di “Bettino e Giulio”, furono determinanti anche le fattive azioni di Mauro Ferri, membro del comitato Dodge, da Craxi incaricato di esercitare azioni di persuasione presso i vari gruppi, e del segretario generale della Farnesina, Renato Ruggiero. I risultati si videro già a Stresa nel Consiglio informale dei ministri degli esteri che precedeva il consiglio di Milano.

 

Il vertice di Stresa e le decisioni del Consiglio di Milano.

Al Consiglio informale dei ministri degli Esteri, tenutosi a Stresa l’8 e il 9 giugno, in preparazione del Consiglio di Milano, Andreotti che ne era il presidente, presentò un progetto di mandato per una Conferenza Intergovernativa (CIG) da convocare al Consiglio europeo di Milano. Tale documento riprendeva le conclusioni del Comitato Dooge (definito anche Spaak II) ed esprimeva la posizione della presidenza di turno italiana orientata secondo le linee di Spinelli già approvate dal Parlamento Europeo ma volutamente ignorate nei Consigli precedenti.

Giulio Andreotti, in quella sede e Craxi nel Consiglio da lui presieduto a Milano, dichiarò, con fermezza e determinazione, che non avrebbe mai accettato un accordo al ribasso. A Craxi ed Andreotti si unirono subito i paesi del Benelux, mentre la delegazione britannica al seguito della Tatcher, cercava, grossolanamente, di trovare un accordo con Francia e Germania. Ma Kohl, debitamente sollecitato (oserei dire “strigliato”) in patria, rivelò un comportamento quasi “bipolare” e, con una mossa a sorpresa, presentò un documento che chiedeva la convocazione di una Conferenza Intergovernativa per la riforma dei Trattati: era quello che voleva la presidenza italiana. Il documento fu istantaneamente approvato da François Mitterrand che trasformò così, da minoranza a maggioranza, la posizione del Benelux. L'Italia forzò la mano proponendo di votare la proposta tedesca che venne accolta a maggioranza, con i voti negativi di Gran Bretagna, Danimarca e Grecia. Per la Thatcher fu una sconfitta. La Conferenza Intergovernativa, così convocata, avrebbe avuto come basi della discussione il “Libro bianco della Commissione europea “presieduta da Jacques Delors e le relazioni Dodge Adonnino.

 

Bettino Craxi
                      Presidente del Consiglio Europeo di Milano nel
                      1985 con la premier britannica Margareth Tatcher

Bettino Craxi Presidente del Consiglio Europeo di Milano nel 1985

con la premier britannica Margareth Tatcher

 

Il libro bianco dell’Unione Europea. La CIG (Conferenza intergovernativa)

Il primo Libro bianco dell'Unione Europea prende il nome dal suo designatore Jacques Delors. In questo documento si pone l'obiettivo sia del completamento del Mercato Unico e sia della specificazione dei benefici attesi conseguiti dalla sua realizzazione. A tal fine, stabilisce le tappe del processo d'integrazione, a partire dal 1985, in cui vengono scanditi i tempi e le procedure che, sostanzialmente, porteranno nel 1993 al completamento del Mercato Unico e all'avvio della fase di preparazione dell'Unione Economica e Monetaria, alla costruzione della moneta unica e poi, all'allargamento verso nuovi Paesi. E importante rilevare che anche questo documento è, per larga parte, ispirato dal “Progetto di trattato” di Altiero Spinelli.

Nel Consiglio Europeo di Milano del giugno 1985, presieduto da Bettino Craxi, fu anche deciso, a maggioranza, di convocare la Conferenza intergovernativa (CIG), così come già convenuto a Stresa, grazie all’opera di persuasione italiana.

Nelle conclusioni del Consiglio veniva delineato il mandato della Conferenza Intergovernativa: elaborare un trattato sulla politica estera e di sicurezza comune, nonché le modifiche istituzionali da apportare al Trattato CEE. L’obiettivo era quello di far progredire concretamente l’Unione Europea.

L’attività svolta dalla presidenza italiana consentì, dunque, di giungere al traguardo auspicato da più parti della convocazione della Conferenza Intergovernativa, fino ad allora ritenuta un obiettivo proibito.

Due elementi resero possibile questo risultato. Il primo fu l’approccio “funzionalista” della Commissione, e in particolare del suo presidente Jacques Delors, che seppe convincere della necessità di riforme istituzionali per rendere possibile l’attuazione del Libro bianco sul mercato unico, sul quale c’era un accordo generale. Il secondo elemento fu la “scelta europea” del presidente francese François Mitterrand e il suo sostegno alle idee di rilancio sostenute dal cancelliere tedesco Helmut Kohl. La presidenza lussemburghese e la Commissione di Jacques Delors e del segretario generale Emile Noë, contribuirono efficacemente a questo risultato. Fu un risultato straordinario. Lasciamo comunque agli altri il “merito” di essersi fatti convincere dall’Italia.

 

Jaques Delors

Jaques Delors Presidente della Commissione Europea dal 1985 al 1995

Lo svolgimento della Conferenza intergovernativa e L'Atto unico europeo


La CIG (Conferenza intergovernativa) si aprì il 9 settembre 1985, sotto la presidenza lussemburghese, con il mandato di «elaborare, in vista di far progredire l’Unione europea, un Trattato sulla politica estera e la sicurezza comune, le modifiche del Trattato CEE, conformemente all’art. 236 del trattato, necessarie alla messa in opera degli adattamenti istituzionali concernenti il processo decisionale del Consiglio, i poteri esecutivi della Commissione e i poteri del Parlamento europeo, nonché l’estensione a nuovi campi d’attività sulla base delle proposte fatte dai Comitati Adonnino e Dooge ».

Alla sessione inaugurale del 9 settembre seguirono altre cinque riunioni della CIG, a livello dei ministri degli Esteri. Questi ultimi, il 19 dicembre, misero a punto il preambolo e le disposizioni comuni dell’Atto Unico. Il 27 gennaio 1986, veniva definito il testo finale in forma giuridica.

In meno di sei mesi, dunque, la CIG era stata in grado di concludere i suoi lavori e di portare a compimento il mandato affidatole dal Consiglio Europeo di Milano. I risultati della CIG, furono elaborati in forma di modifiche od aggiunte da apportare su alcuni aspetti essenziali del Trattato di Roma. Tali interventi erano rivolti, in particolare, alla disciplina relativa al mercato interno, al rafforzamento della coesione, ai poteri esecutivi della Commissione, ai poteri del Parlamento Europeo, alla tecnologia ed all’ambiente.

 

Il Consiglio europeo di Lussemburgo del 1986 – L’Atto Unico europeo (AUE)


Toccò al Consiglio europeo del Lussemburgo di implementare il lavoro della CIG e sancire le modifiche da apportare ai trattati di Roma del 1957 con cui fu istituita la Comunità Economica Europea. Questo Consiglio viene ricordato come uno dei più lunghi della storia: 28 ore di riunione. Il tema maggiormente dibattuto nel corso di tale Consiglio Europeo fu quello del mercato interno. Fu, inoltre, assai difficile convincere tutti gli Stati membri sul passaggio dall’unanimità a quello della maggioranza qualificata. Era estremamente necessario trovare un compromesso su questa questione, altrimenti, il progetto di realizzare uno spazio economico senza frontiere sarebbe fallito. Tale compromesso fu raggiunto, ma alcuni Stati membri vollero inserire, nei settori di maggior rilevanza ai fini della realizzazione del grande mercato, una serie di eccezioni, cautele e deroghe che di fatto hanno attenuato la portata della decisione. Tuttavia, l’accettazione del principio del voto a maggioranza per materie coperte da un numero rilevante di articoli e per quelle relative all’armonizzazione delle legislazioni, per le quali fino a quel momento era prevista l’unanimità, costituì indubbiamente un dato positivo. Ora possiamo chiaramente affermare che con l’introduzione del voto a maggioranza qualificata, i paesi singoli, “de facto” non hanno più diritto di veto.  Il trattato, che fu negoziato, sotto presidenza lussemburghese, dalla CIG, non menzionò, nel titolo dell’atto approvato, il termine” Unione Europea”, rifiutato sia da Regno Unito, Danimarca e Grecia che non volevano lasciarsi trascinare verso l’Unione Europea, sia dal Benelux, che considerava il trattato ancora lontano dall’Unione. La denominazione di “Atto Unico Europeo” sottolineava, invece, la presenza, in un solo atto, per la prima volta, nella storia comunitaria, di disposizioni relative alla Comunità e alla Cooperazione politica europea. E, così, il 17 febbraio del 1986, si pervenne all’Atto Unico Europeo (AUE) che fu firmato a Lussemburgo solo da 9 Stati. I tre Stati rimanenti, Italia, Grecia e Danimarca, firmarono l’atto il 28 febbraio1986, a l’Aia. I retroscena di questo ritardo sono stati raccontati in varie versioni: a me piace raccontare, forse con presunzione, che l’Italia, principale forza trainante nella stesura dell’Atto finale aveva corso il rischio di non firmare fin quando non fossero convinti i tre Stati che avevano “vogato contro” durante tutto il tempo delle trattative. L’AUE entrò in vigore il 1°luglio del 1987. L’Atto unico europeo comportava, in un solo strumento, una serie di modifiche del Trattato di Roma e delle disposizioni relative alla cooperazione politica europea (CPE). Una prima categoria di modifiche riguardava il contenuto delle politiche:

realizzazione d’uno “spazio senza frontiere” entro il 1° gennaio 1993; adozione del principio di realizzazione progressiva d’una Unione Economica e Monetaria (UEM); estensione delle competenze della CEE a nuove politiche come la Politica ambientale, la Politica della ricerca scientifica e tecnologica; intervento della CEE per rafforzare la coesione, favorire il Dialogo sociale, armonizzare le convenzioni collettive o le condizioni di sicurezza e di salute dei lavoratori. Vi erano poi le modifiche istituzionali: estensione del voto a maggioranza sui temi legati alla realizzazione dello “spazio senza frontiere” (salvo per l’Armonizzazione fiscale, la Libera circolazione delle persone, i diritti e gli interessi dei salariati); più ampie competenze d’esecuzione della Commissione, secondo modalità che ne prevedevano il controllo da parte dei governi; attribuzione al Parlamento europeo della Procedura di cooperazione in campo legislativo e del potere di “parere conforme” in caso di adesione o associazione d’un paese terzo. Infine, vi erano le modifiche relative alla cooperazione politica, con la creazione d’un segretariato incaricato di assistere la presidenza, oltre a un certo numero di innovazioni minori.

Europa patria comune

Immagine estratta da CISL Scuola.it 18.04.2017

 

Riflessioni finali sull’AUE e sulle cose ancora da fare.

Abbiamo chiaramente constatato il grado di impotenza del Parlamento che non era stato neanche associato ai lavori della CIG. Nonostante il suo isolamento, molti temevano che potesse comunque spingere l’integrazione verso “azzardati” passi in avanti (!!!).  Ebbene, il Parlamento, pur avendo al suo attivo la perfetta “ricetta” del Progetto di Trattato per la Realizzazione dell’Unione Europea, approvò l’AUE, “obtorto collo” (Spinelli aveva dichiarato che, come nel romanzo di Hemingway “Il vecchio e il mare”, il Parlamento aveva portato a terra solo la lisca del pesce catturato). Ma al di là dei suoi contenuti, pure da non sottovalutare, anche se inferiori al progetto del Parlamento, l’Atto Unico ebbe il grande merito di aprire una stagione di riforme, oltre ad aver concluso un periodo grigio della storia comunitaria. Francia e Germania, con un guizzo di orgoglio, forse rinsavite pensando a Schumann, Monnet, Adenauer e de Gasperi, dichiararono, a firma avvenuta, che sarebbero state pronte ad andare più lontano; il cancelliere Kohl, in particolare, affermò che il problema dei poteri del Parlamento era solo rinviato.

Non dimentichiamo, inoltre, che era rimasto sospeso il problema della Costituzione Europea, seppur affrontato, anche negli ultimi consessi, con molta pigrizia e senza troppa convinzione. Eppure è impossibile pensare ad una Unione di Stati così come concepita dai padri fondatori, senza una Costituzione, con un Parlamento senza poteri, senza comunità politica. Comunque, la storia dell’Unione Europea ci ha abituati ai passi da lumaca: l ’AUE condurrà, nel 1992, all’istituzione della Unione Europea (UE) che assorbe le Comunità Europee esistenti (CEE, CECA, CEEA) con il trattato di Maastricht, nel febbraio del 1992, che pone le basi e le regole della futura Unione Europea; seguirà la moneta unica, la procedura di codecisione, il riconoscimento delle Regioni come realtà istituzionali e, il 29 ottobre 2004, la  ciliegina sulla torta :” il trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”. Il trattato fu firmato dai Capi di Stato o di Governo di 25 membri di allora e i loro ministri degli esteri. La cerimonia della firma del Trattato si svolse a Roma e fu trasmessa in “pompa magna” in Eurovisione. Ma sapete tutti come è andata a finire. Quella trasmissione si rivelò la più solenne tra le “fake news” televisive.  Successivamente, il Trattato veniva ratificato solo da 18 paesi (tra cui l’Italia) su un numero totale di 27 (25+2) Stati membri. In particolare, i referendum sulla ratifica del Trattato-Costituzione svoltisi in Francia il 29 maggio 2005 e nei Paesi Bassi, il 1° giugno dello stesso anno, avevano avuto esito negativo, mentre il 6 giugno il Regno Unito decideva, a sua volta, di sospendere il processo di ratifica a tempo indefinito e altri paesi membri dichiaravano l’esistenza di vari ostacoli alla ratifica. Ne seguiva la decisione del Consiglio Europeo del 21-22 giugno 2007 di abbandonare il progetto di Trattato-Costituzione, che avrebbe dovuto sostituire, unificandoli, il Trattato di Maastricht sull’Unione Europea e il Trattato sulla Comunità Europea, e di limitarsi alla revisione di questi ultimi. A ciò si è provveduto mediante il Trattato firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore nel 2009, che, nel modificare i Trattati in vigore, ha recepito molte delle disposizioni sostanziali della mancata Costituzione. Oggi, nonostante successivi tentativi e nuove proposte, la Costituzione Europea rimane la grande “Incompiuta”.  La “Repubblica” del 6 giugno 2016, in un commento postumo scrisse: «Niente Costituzione: quella bocciatura che cambiò la storia dell'Europa.  Il fallimento della Carta che avrebbe garantito più potere a Bruxelles è probabilmente il più clamoroso fra gli errori che hanno fatto deragliare la UE: ebbe origine in quel momento il vasto movimento populista che oggi mina la stabilità politica del Continente».

La continua constatazione delle citate “carenze” dell’Unione che vengono, più spesso enumerate che colmate, mi fa riflettere su una frase di Bernard -Henry Lévy: “l’Europa non è un luogo ma è un’idea”. Ebbene, l’idea, non perfetta, l’abbiamo forse raggiunta ma soltanto come un coacervo di idee, più o meno contrastanti, in funzione del tornaconto individuale degli Stati. Sono convinto, invece, che soltanto la consapevolezza che il nostro “luogo” è l’Europa, ci porterà alla realizzazione dell’idea. Forse, ora non è il momento, ma ritorno ad un concetto già da me evocato ed è quello di un’Europa che si estende dall’Atlantico agli Urali, come la descriveva de Gaulle.

 

 

 

 

 

PARTE SESTA

 

Mi sembra quasi un anacronismo continuare questo lungo excursus della storia dell’Europa intesa come “Unione” o “Comunità” di Nazioni. Seppure cominciata ben prima dell’inizio dei tragici eventi dell’Ucraina, la mia cronistoria rivelava, già dalle prime pagine, la persistente azione di forze contrarie, occulte o palesi, che, di fatto, hanno impedito o ritardato la realizzazione di un progetto ben preciso, immutato e sempre valido, di una Europa unita. Un progetto voluto dai “Padri Fondatori” e maturato per scongiurare che, nel futuro, si potessero ricreare quelle condizioni socio-politiche ed economiche che furono all’origine del secondo conflitto mondiale. Ebbene, quella incapacità, protrattasi per troppi anni, e la conseguente inerzia, ci ha mostrato quanto irrilevante fosse la voce dell’Europa, derisa e beffata per le sue divisioni interne e per la sua “impotenza”. Questa è stata l’immagine dell’Europa, agli occhi del mondo, all’inizio dell’aggressione russa dell’Ucraina. Non pensate che, se avessimo conservato la lungimiranza e la saggezza di quei nostri “padri”, mettendo da parte gli stupidi egoismi e, seguendo la strada da loro tracciata, tutto quanto sta accadendo poteva oggi essere scongiurato, in presenza di una Europa” forte” e “credibile”?

E dire che, fino allo scorso febbraio, erano in molti a pensare che l’Unione Monetaria e l’Euro, insieme ad una “discutibile” politica agricola ed energetica, i cui veri effetti sono ora comparsi in tutta la loro gravità, bastasse, da sola, ad affermare l’autorevolezza dell’Europa in campo internazionale, lasciando immutato il rapporto sbilanciato di forze e di interessi al suo interno.

Ma dobbiamo ancora fare un passo indietro per ricordare come siamo pervenuti alla Unione Monetaria ed all’Euro.

Come abbiamo visto, il lento procedere dell’Unione “è stato contrassegnato da una serie di “trattati” tra i vari stati aderenti che hanno, purtroppo, mantenuto nel tempo, la valenza di semplici accordi internazionali, senza un coraggioso passo avanti verso una Confederazione o una concreta Unione di Stati.

Ipotizzando di rileggere, non di riscrivere, la lenta storia della costruzione europea, con un pacato ottimismo, a guisa di un anziano immaginario cronista, si potrebbe, indubbiamente, affermare che, in ogni sua tappa importante, vi sia stato uno scontro, più o meno appariscente, tra quelle forze dianzi citate: ogni revisione dei trattati è stata il frutto del raggiungimento di compromessi tra queste due forze. E, come già altrove evidenziato, il risultato è costituito da piccoli passi in avanti verso l’unificazione, al netto di quelli indietro e anche problemi cruciali irrisolti. Tuttavia, la tenacia di pochi, nelle trattative, spesso riesce ad ottenere un appiglio, un invito, più o meno esplicito, a riprendere i lavori, appena possibile, per risolvere i punti rimasti in sospeso. Sempre con” la pazienza dell’ottimista”, quel disincantato cronista potrebbe affermare che, nel lungo tempo (in the long run), il progresso dell’unificazione, avviene, lentamente anche con l’accoglimento di quegli inviti.

 

Il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992

Nel 1989, un evento epocale segnò la storia contemporanea: la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania. Questo evento segnò, oggi possiamo dire “apparentemente”, la fine del confronto tra i” due blocchi” e diede, senza dubbio, un nuovo impulso di accelerazione all’ambizioso progetto di integrazione dell’Europa.

Progetto che, come già rimarcato, dopo un lungo periodo di dormienza era stato “riattivato “dopo la dichiarazione di Stoccarda del 1983, l’Atto Unico Europeo del 1986 e il trattato di Schengen dell’85 (libera circolazione di merci e persone e la progressiva abolizione di frontiere comuni).Infatti, nel Consiglio Europeo straordinario che si tenne a Dublino,  nel mese di aprile del 1990, si decise, finalmente, di rivedere i Trattati esistenti ed affidare l’individuazione di una proposta di unione politica a una conferenza intergovernativa (CIG), che si trovò, come sempre, a dover conciliare prospettive e interessi diversi. Conclusi i lavori della Conferenza, si aprì, nel dicembre 1991, a Maastricht, il Consiglio Europeo che, sulla base delle proposte presentate, avrebbe prodotto il “nuovo Trattato”. Ovviamente, molte furono le difficoltà, i contrasti e le riserve ma, alla fine, mediante i soliti compromessi, vennero fissate le tappe per una Unione Economica e Monetaria (UEM) e le modalità per adottare una politica estera e di sicurezza comune. Alla fine, il Trattato di Maastricht sull’Unione Europea fu firmato il 7 febbraio 1992.Per l’Italia il trattato fu firmato, in qualità di ministro del tesoro, da Guido Carli, la cui azione meritoria e la cui fama in campo internazionale risalgono ai tempi di Bretton Woods e del FMI. Ancora oggi, dopo 30 anni compiuti, esistono due narrazioni uguali e contrarie sui benefici o sui danni prodotti dal Trattato di Maastricht: primo fra tutti, la rinunzia dell’Italia (e degli altri 11 paesi firmatari) alla propria sovranità monetaria. Una controversa valutazione la potremmo ricavare, forse, nel corso di questa narrazione. Posso solo affermare che, bene o male che sia stato, senza Guido Carli, l’Italia non sarebbe stata in grado di sottoscrivere il trattato. 30 anni da quel tempo sono ancora troppo pochi perché gli storici possano ricostruire, con rigorosa e obiettiva analisi, cause ed effetti di quegli avvenimenti, ma si può scommettere che, in avvenire l'impatto della firma di Maastricht sarà riconosciuto in tutta la sua valenza per aver, finalmente, iniziato a “scalfire” equilibri politici e diseguaglianze che allora apparivano consolidati, eterni ed intoccabili.

L’ingarbugliata situazione politica italiana espressa e rappresentata dal “pentapartito”, una classe politica distratta ma dominata (ancora per poco) dal CAF (trio Craxi-Andreotti-Forlani) che stava per implodere, una finanza pubblica,  ed una economia allo sbando, mostravano una immagine dell’Italia poco raccomandabile e, ciò nonostante, Carli riuscì, da una parte,  ad imporre ai riluttanti politici la sottoscrizione di rigidi impegni necessari per mantenere il passo con il resto d’Europa, dall’altra, con la sua “credibilità” internazionale, la permanenza dell’Italia in quel consesso di cui era stata tra i principali protagonisti fin dalle origini ma da cui rischiava di essere emarginata.

 

Trattato di Maastricht
                      7 febbraio 1992 Vista parziale della foto
                      ufficiale dei protagonisti Al centro la Regina
                      Beatrice dei Paesi Bassi

Trattato di Maastricht. 7 febbraio 1992. Vista parziale della foto ufficiale dei protagonisti. Al centro la Regina Beatrice dei Paesi Bassi

 

 

Alcuni dettagli (stralcio da Enciclopedia Treccani: Federico Niglia - Dizionario di Economia e Finanza 2012 e comunicati stampa vari).

Il Trattato, che consta di 252 articoli e ha annessi 17 protocolli e 31 dichiarazioni, definì un nuovo assetto istituzionale comunitario basato su 3 pilastri: la Comunità Europea (CE, in sostituzione della CEE), l'unico a carattere federale rispetto agli altri due, la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e Giustizia e Affari Interni (GAI).

Per gli ultimi due pilastri venne adottato il metodo intergovernativo, a differenza del primo, ambito di applicazione del metodo federalista. Particolarmente innovativa era la previsione di una cooperazione nel campo della sicurezza e della difesa, che permetteva all’Unione Europea di operare adeguatamente sulla scena internazionale e di promuovere la stabilità a livello regionale, soprattutto con l’emergere di focolai di crisi nelle aree limitrofe alla UE. Veniva accolta la volontà futura di costituire una difesa comune e si stabiliva che sulle decisioni di politica estera generale sarebbe rimasta l'unanimità, salvo adottare la maggioranza per le “decisioni di applicazione”.

Altrettanto rilevanti le previsioni del terzo pilastro, dedicato alla cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale, finalizzate alla creazione di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia all’interno dell’Unione.

Il Trattato ha inoltre definito le tappe per la creazione dell’Unione Monetaria, delineando l’assetto istituzionale che avrebbe sotteso al funzionamento della moneta unica e indicando i requisiti che gli Stati membri avrebbero dovuto rispettare per poterla adottare, per es. i parametri di finanza pubblica (deficit/PIL al 3%, debito/PIL al 60%).

L’Unione veniva fondata su una struttura istituzionale unitaria estesa a tutti e 3 i pilastri e basata su 3 istituzioni principali: Parlamento, Consiglio e Corte di Giustizia. Il Trattato ha esplicitato, inoltre, il ruolo del Consiglio Europeo, il quale è definito come l’organo incaricato dello sviluppo politico dell’Unione. L'Unione Europea restava, tuttavia, una struttura anomala in quanto priva di personalità giuridica e di risorse proprie, a parte quelle della CEE di cui tuttavia non avrebbe potuto disporre.

 

Le tre fasi dell’attuazione dell’UEM e i parametri di Convergenza

Il trattato prevedeva l'introduzione dell'UEM in tre fasi (alcune date chiave erano state lasciate aperte per essere fissate in successivi vertici europei in funzione dell'evoluzione degli eventi):

Prima fase: (dal 1o luglio 1990 al 31 dicembre 1993): introduzione della libera circolazione dei capitali tra gli Stati membri;

Seconda fase: (dal 1o gennaio 1994 al 31 dicembre 1998): convergenza delle politiche economiche degli Stati membri e rafforzamento della cooperazione fra le banche centrali degli Stati membri. Il coordinamento delle politiche monetarie viene istituzionalizzato con la creazione dell'Istituto monetario europeo (IME), incaricato di rafforzare la cooperazione fra le banche centrali nazionali e compiere i preparativi necessari per l'introduzione della moneta unica. Questa fase prevede che le banche centrali nazionali diventino indipendenti; contemporaneamente viene istituita la BCE (Banca Centrale Europea) che verrà poi costituita il 1° giugno 1998.

Terza fase: (da iniziare il 1o gennaio 1999). Introduzione della moneta unica: attuazione di una politica monetaria comune sotto l'egida dell'Eurosistema sin dal primo giorno e progressiva introduzione delle banconote e monete in euro in tutti gli Stati membri della zona euro. La transizione alla terza fase è subordinata al conseguimento di un elevato livello di convergenza duratura definito sulla base di un certo numero di criteri stabiliti dai trattati. Le norme di bilancio devono diventare vincolanti e ogni Stato membro che non le rispetta può incorrere in sanzioni. La politica monetaria per la zona euro è affidata all'Eurosistema, composto da sei membri del comitato esecutivo della BCE e dai governatori delle banche centrali nazionali della zona euro.

Parametri di convergenza: Dopo la creazione dell'Istituto Monetario Europeo, IME, (seconda fase)), entro il 1º gennaio 1999, sarebbe nata da esso la Banca Centrale Europea (BCE) e il Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) che avrebbe coordinato la politica monetaria unica. Venivano distinte due ulteriori tappe: nella prima, le monete nazionali sarebbero continuate a circolare pur se legate irrevocabilmente a tassi fissi con il futuro Euro; nella seconda le monete nazionali sarebbero state sostituite dalla moneta unica. Per passare alla fase finale ciascun Paese avrebbe dovuto rispettare cinque parametri di convergenza:

Rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3%.

Rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 60% (Belgio e Italia furono esentati).

Tasso d'inflazione non superiore dell'1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi.

Tasso d'interesse a lungo termine non superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi.

Permanenza negli ultimi 2 anni nello SME senza fluttuazioni della moneta nazionale.

Durante le trattative, fu difficile superare l'opposizione britannica allo schema descritto e sulle questioni sociali. Venne sancita così la clausola di “opting-out “attraverso la quale la Gran Bretagna sarebbe potuta rimanere nella futura Unione Europea pur senza accogliere le innovazioni che il suo governo avesse rifiutato. Nasceva così per la prima volta l'idea di un'Europa a due velocità.


L’Italia degli Oscar approda a Maastricht. Ma in quali condizioni?

Ma cosa c’era che non andava in Italia ai tempi di Maastricht? Dopo il cosiddetto “Miracolo economico” e la gestione “virtuosa” dell’Economia e della Finanza degli anni ’50 e ’60 che fruttò l’assegnazione di due premi Oscar finanziari per gli anni 1959 e 1964 (vedasi Parte Prima), l’economia italiana non godeva buona salute dovendo affrontare grandi sforzi per contenere l’inflazione ed una bilancia dei pagamenti con tendenza al saldo negativo. Il fenomeno era già in atto prima del ’64 e per me, uomo della strada e cattivo lettore della Storia, l’Oscar di quell’anno. fu veramente paradossale (qualcuno mi sconfessi). Vediamo perché: a partire dai tempi di Bretton Woods, ispirate dalle teorie Keynesiane, le principali economie si risollevarono con il Piano Marshall, gli aiuti di Stato e con politiche fiscali e monetarie espansive. In Italia, il PIL aumentò del 6,3% annuo, la bilancia commerciale marciava con un saldo del 14% annuo e, nel ’63, si era giunti alla piena occupazione (tasso inferiore al 4%). Ma, tutto ciò, si reggeva, sul basso costo della manodopera e sulla grande disponibilità della stessa che resero le aziende italiane altamente competitive nel contesto economico-produttivo internazionale. La creazione degli enti di Stato, inoltre, diede un notevole impulso a quell’economia che sotto la sua “egida” ebbe un effetto trainante (vedasi Parte Prima). Ma, ben presto, il bilancio del Paese cominciò a produrre un deficit alimentato, inevitabilmente, da una spirale di aumenti salariali indotti da una pressione sindacale che si faceva ogni giorno più stringente. Ed ecco che si innesca un fenomeno da cui cominciamo ad imparare alcuni termini ancora in voga ai giorni nostri: “Crescita-Consumi- Produttività “che ancora appaiono come panacea di tutti i mali ma anche come mete irraggiungibili per la nostra economia. L’aumento del costo del lavoro (salari) fu, naturalmente, uno stimolo per i consumi che, guarda caso, comportavano, quasi per legge naturale, la diffusione di un fenomeno e di una parola (veramente già nota): l’inflazione e, nel nostro caso, anche “sostenuta”, fino al punto da creare le prime crepe nel nostro sistema economico. Per di più, le imprese, per via dell'alto costo del lavoro, ridussero i profitti e, conseguentemente, non poterono finanziare più gli investimenti.  La speculazione, sempre all’erta, cominciò ad attivarsi ed i mercati iniziarono ad attaccare la valuta italiana scommettendo sulla sua imminente svalutazione.  Nel maggio del ’63, Governo (ultimi giorni del Fanfani IV) e la Banca d'Italia (Guido Carli) decisero, in tandem, di attuare delle politiche fiscali e monetarie restrittive con lo scopo di combattere l'inflazione e di rafforzare la valuta. Tutto questo, però, in meno di un anno, generò un ulteriore crollo della produzione industriale e l'aumento della disoccupazione. Le pressioni per una svalutazione monetaria si fecero sempre più forti, ma Guido Carli resistette e, nei primi tredici giorni di marzo 1964, utilizzò qualcosa come 200 milioni di dollari di riserve in modo da mantenere stabile il cambio. Il 14 marzo 1964 (Governo Moro II) il governatore di Bankitalia si recò a Washington e riuscì ad ottenere dalla Federal Reserve un finanziamento di 600 milioni di dollari, oltre che altri prestiti dal Tesoro americano per 800 milioni. Quest'ultimo riuscì a coinvolgere anche la Banca d'Inghilterra e l'FMI per mettere a disposizione una potenza di fuoco di 1,275 miliardi di dollari. La cifra serviva per sostenere la Lira sotto attacco speculativo, ma non fu utilizzata. Bastò però l'annuncio dell'accordo che la speculazione sul mercato valutario si placò. Questo gettò le basi per una lenta ripresa economica che avvenne nella seconda parte degli anni '60, con l'inflazione che fu tenuta sotto controllo e la bilancia commerciale che riprese il saldo positivo dopo lo stop degli anni '63 e '64 (cfr. Parte Prima). Morale della narrazione: quel secondo Oscar del ’64 alla Lira italiana, come moneta “vedetta dell’anno”, fu dovuto al suo rapido miglioramento, in pochi mesi, quando pareva essere sull’orlo della svalutazione: la bilancia dei pagamenti italiana finiva l’anno con un attivo di seicento milioni di dollari, mentre, nel dicembre ’63, mostrava un deficit di oltre un miliardo di Dollari.

Nello stesso tempo si erano “consumati “tre Governi: Fanfani, Leone, Moro.

 

Il paradosso dell’Oscar e le motivazioni

Non sono certo ma credo che da Bankitalia arrivò questo commento: non è questo il solo Oscar raccolto oggi dall’Italia. Il nostro Paese riceve anche quello «per la condotta economica più coraggiosa». La breve motivazione spiega: «Questo premio è assegnato all’Italia per essersi rifiutata di accettare le condizioni che i suoi partners del MEC intendevano esigere allorché s’offrirono di districare la Lira dalla crisi all’inizio del ’64: e per aver messo simultaneamente gli Stati Uniti sotto pressione affinché accorressero con slancio in suo aiuto».

Ed ecco il paradosso: proprio quelle ragioni che avevano motivato il primo Oscar, avevano portato l’Italia, in pochi anni, sull’orlo della “bancarotta”; ma le stesse motivazioni portarono, anche al secondo Oscar, per lo “slancio “dell’economia dovuto all’indebitamento e non ad una crescita reale! Comunque sia andata, gli speculatori dovettero rimandare le loro velleitarie aspettative. Ma questi Oscar furono vera gloria? La mia “ruspante” lettura della storia, mi fa pensare al mondo dello “shipping” quando i vecchi sistemi gestionali basati sul più rigido risparmio e sulle decisioni di pochi e “capaci” manager poco lungimiranti, subivano “endemicamente” gravi danni economici per avarie, incidenti a uomini e cose, per carenza di prevenzione e in nome del “risparmio”. E, in queste occasioni, certi personaggi acquistavano prestigio ed onori, per aver riparato i danni, “a posteriori”, e mai per averli prevenuti. Per dare un’immagine più concreta basti pensare al pompiere che viene premiato per aver spento abilmente l’incendio causato da carenza o assenza di una prevenzione ritenuta antieconomica…. Questa è la mia lettura di quella storia. L’Italia si riprese, è vero. Ma quanto durò?

Da quel periodo, nella caotica alternanza, tutta democratica, dei tanti e troppi governi multicolori, il sistema politico, preoccupato solo del consenso immediato, continuò, spavaldamente e irresponsabilmente, a perseguire una economia “espansiva”, tra leggi inadeguate, corruzione, evasione fiscale, privilegi, monopoli, diseguaglianze e quant’altro , innescando un indebitamento che il Sistema non riuscì più a controllare soprattutto quando, verso la metà degli anni ’80, il nostro debito inizia a essere collocato presso investitori (speculatori) stranieri.(!) E l’Italia, “Paese fondatore”, si presentò, in queste tristi condizioni, all’appuntamento tanto atteso di Maastricht, “sponsorizzata” soltanto  dalla credibilità di Carli. Ma Carli, con questo suo ultimo coinvolgimento (sarebbe morto l’anno seguente), riscattò quella apparente complicità istituzionale dei Governatori di Bankitalia che erano stati testimoni quasi impotenti o “notai” dell’indebitamento pubblico: finalmente si tolse la soddisfazione di far capire ad Andreotti che , ormai, le regole sarebbero state fissate, dall’alto, a livello sovrannazionale, anche se con l’apporto proporzionale dell’Italia, ma con una rigidità e severità poco congeniali alla classe politica italiana.

A questo punto, non posso fare a meno di riportare uno stralcio di la Repubblica del 22 aprile 2003, in cui, Massimo Riva ricorda Guido Carli a 10 anni dalla sua morte.

«[…] Il trattato di Maastricht fu l’ultimo atto, ma anche il più importante e significativo di una lunga vita al servizio dell'economia nazionale non priva di ambiguità ed ombre accanto alle molte luci. Era il febbraio 1992 quando Carli condusse per mano Giulio Andreotti nella piccola e allora quasi sconosciuta cittadina olandese per fargli sottoscrivere una serie di duri vincoli finanziari che avrebbero poi imposto un radicale cambiamento di rotta nella gestione della cosa pubblica. In quelle stesse settimane si stavano manifestando le prime avvisaglie di quel terremoto politico-giudiziario che, sull' onda delle inchieste di Mani Pulite, avrebbe poi portato alla rapida liquidazione di un intero ceto politico. La concomitanza dei due eventi merita qualche riflessione. Le cronache tumultuose di Tangentopoli, finora, hanno sovrastato tutto e tutti, rendendo diffusa e radicata la convinzione che la caduta della cosiddetta prima Repubblica sia avvenuta soltanto e unicamente per via giudiziaria. Senza nulla togliere al ruolo essenziale che ebbero allora le inchieste di una magistratura finalmente tornata al suo ruolo di custode dell'etica pubblica, vale forse la pena di richiamare che segnali di crisi irreversibile della classe dirigente di quell' epoca si stavano già manifestando sul terreno specifico della politica. E proprio Maastricht fu il più evidente di quei segnali perché, attraverso i vincoli di quel trattato, Guido Carli di fatto condusse abilmente al suicidio politico quell' alleanza politica fra democristiani e socialisti che aveva fino ad allora prosperato sul malgoverno della finanza statale, accumulando sulle teste degli italiani un debito pubblico da bancarotta imminente: come si incaricò di dimostrare la paurosa crisi valutaria del settembre 1992. […] ».

 

Le disgrazie non vengono mai sole

C’è ancora chi crede che Maastricht fu una disgrazia, a ragione o a torto, ma, certamente avemmo tutti la percezione che per risolvere gli endemici (altro che Oscar) problemi del Bel Paese ci voleva quel rigore “imposto” dai parametri di Maastricht e accettato da un’Italia che non era mai stata in grado di autoimporlo.

Già! le disgrazie (fu vera disgrazia?) non vengono mai sole: il 17 febbraio, dieci giorni dopo Maastricht, inizia l’affaire “mani pulite” che polarizzando l’attenzione (e non solo) degli italiani, con tutte le sue implicazioni, distolse lo sguardo di governanti e “cittadini” da Maastricht e dagli strani movimenti valutari speculativi che vedevano al centro l’Italia, “vittima ignara”, insieme alla Gran Bretagna, mentre la Germania riunificata, stava a guardare (e non solo) “crogiolandosi” nella sua “espansione economica e territoriale”. Ma non termina qui: oltre all’inizio di Tangentopoli, le elezioni politiche,) le elezioni presidenziali (Da Cossiga a Scalfaro) e dulcis in fundo, il cambio di Governo da Andreotti ad Amato. Fu il secondo Governo Amato, il cinquantaseiesimo esecutivo della Repubblica, il quarto ed ultimo della XIII legislatura. Appena insediato, il 28.06.92, Amato, conscio del baratro in cui si trovava l’Italia, ebbe “una bella pensata”, per dirla alla Totò: di lì a pochi giorni decretò un drastico” prelievo forzoso” del sei per mille, dai conti correnti dei contribuenti, con decorrenza retroattiva (in quel tempo la lega di Bossi e di Miglio, spingeva gli italiani ad “esportare” i loro risparmi). Allo stesso tempo, fu istituita l‘ISI, l’imposta straordinaria sugli immobili che, subito dopo, divenne ICI (Imposta Comunale sugli immobili) e poi, fino ad oggi, IMU (Imposta Municipale Propria). Ma non finisce qui. nello stesso anno, ancor prima del “mercoledì nero”, il 13 agosto, Moody’s deprezzò la Lira. Amato, 2 con un’altra pensata”, procedette subito alla privatizzazione del Credito Italiano e della ben nota Nuova Pignone. Come vedremo, ad ottobre, dopo l’uscita dallo SME, con una a maxi emissione di 47.000 miliardi di Titoli di Stato, Amato (con Ciampi Governatore di Bankitalia), in piena tangentopoli, riesce a riscuotere la fiducia almeno degli investitori italiani, attirati dagli alti interessi.

 

La resa dei conti. Il mercoledì nero del 16 settembre 1992

Tutti noi, contemporanei di questa triste pagina di storia, sappiamo benissimo cosa successe; ma io voglio raccontarla così come ho cominciato a percepirla dalle prime battute delle note d’agenzia pervenute ai “media”: George Soros, miliardario e speculatore americano di origine magiara, aveva sferrato due pesanti attacchi contro la Sterlina Inglese e contro la Lira italiana, causandone un memorabile tonfo sul mercato valutario internazionale. Risultato: fuoriuscita, quasi contemporanea, della Gran Bretagna e dell’Italia dallo SME (Sistema Monetario Europeo.) Nel 1979, i membri della CEE avevano sottoscritto l’accordo SME (vedasi anche AEC: Accordi europei di cambio) per mantenere il cambio di valute entro un range prefissato rispetto all'ECU (European Currency Unit), determinato dal valore medio delle divise dei Paesi aderenti. L'oscillazione fu stabilita nel ± 2,25%, ma per alcuni Stati come Italia, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo venne ampliata a ± 6%, per via dell'elevato tasso d'inflazione. In caso di sforamento, le Banche Centrali dei Governi nazionali aderenti dovrebbero intervenire per ristabilire l ' equilibrio.  Ma che bella trovata! Si trattò di un “Premio di consolazione” per risanare i danni di una cattiva “gestione” con i soldi degli ignari contribuenti e con la complicità dei Governatori di dette Banche (n. d. r). Tra le tante voci che, ancora oggi commentano a posteriori, come me, questa vicenda, ho trovato interessante quella del trader indipendente Johnny Zotti che, con molta lucidità, qualche anno fa, espresse un’idea molto vicina alla mia “lettura” del fenomeno:

«L'obiettivo è quello di superare il pensiero keynesiano delle politiche monetarie e fiscali espansive che mirano al raggiungimento della piena occupazione. Quello che si vuole creare invece è un mercato finanziario unico che mira alla libera circolazione dei capitali, però con delle regole rigide riguardo la fluttuazione dei cambi. In altri termini la priorità è l'equilibrio finanziario che prevale su altri parametri dell'economia reale come il controllo del tasso di disoccupazione. Sostanzialmente un punto di vista opposto al pensiero dei banchieri centrali degli ultimi mesi. Emblematica in tal senso la decisione della FED di mettere in secondo piano i target di inflazione a favore di quelli del mercato del lavoro». E questo credo sia il pensiero ancora dominante, nonostante tutto.

Si può affermare, a posteriori, che, durante i tredici anni dalla sua entrata in vigore, lo SME rivelò tutta la sua debolezza, alimentando gli attacchi speculativi, rimpinguando i portafogli degli investitori (di ogni genere), a danno delle singole valute nazionali più deboli. E le banche nazionali, es. Italia, UK e Francia, ineluttabilmente, quasi meccanicamente, intervenivano sui mercati per impedire la svalutazione delle monete nazionali. Ma, svalutazione rispetto a quale riferimento monetario? Ed ecco “la pietra dello scandalo” (che ci accompagnerà fino ad oggi, per altri motivi): stiamo parlando di svalutazione rispetto al Marco tedesco (!) Tali interventi si intensificarono anche a seguito dei massicci flussi di capitali che si dirigevano verso la Germania, Riconosco che, forse, ho eccessivi pregiudizi nei confronti della Germania, ma la Germania, in questo contesto, pur firmataria dello SME, approfitta del suo meccanismo “bacato” per rimpinguarsi a danno degli altri. Ma perché questo flusso di denaro a senso unico? Perché quei massicci flussi di capitali su menzionati sono attirati dai tassi di interesse decisamente elevati in relazione a quelli praticati nel resto dello SME e, inoltre, sono in continua crescita. Ma vi sembra normale questo “teatrino” valutario tenuto in piedi da un solo Stato a danno degli altri?

Ma cosa accadde veramente in quel mercoledì?

Italia: proprio nel breve periodo precedente e successivo al trattato di Maastricht, come su accennato, la Lira italiana era già in una rischiosa situazione. I mercati la percepirono prontamente e, tutte le aste per il collocamento dei titoli di stato, erano andate deserte. La Germania (Bundesbank) tronfia della sua “prosperità”, di fronte al rischio del crollo della Lira, espresse chiaramente la sua determinazione a non essere disposta a prendere iniziative per il suo salvataggio (sic!).

La spiegazione ufficiale del crollo della Lira data da Bankitalia fu l’aumento stabilito dalla Bundesbank dei tassi di interesse dovuto, da una parte all’eccessiva liquidità grazie alla voluminosa confluenza di capitali esteri e, dall’altra, il cambio alla pari tra le monete delle due Germanie riunite.tassi di interesse avevano raggiunto il 10%. A seguito di queste politiche e ritenendo l’economia tedesca come una delle più forti e stabili del pianeta, gli investitori iniziarono a comprare marchi. Assieme ai marchi gli investitori comprarono anche Bund. In Germania iniziarono quindi a confluire dei capitali esteri che, per quanto portarono ad un apprezzamento del Marco, indussero a svalutazione tutte le altre valute. Ovviamente, la Lira era la più debole tra le monete coinvolte e ne subì le conseguenze più pesanti: svalutazione del 30% e fuoriuscita dal Sistema Monetario Europeo (21.09.92). Piccolo dettaglio: a seguito del crollo della lira l’Italia andò incontro ad una manovra di 93.000 miliardi di lire.

Gran Bretagna: grosso modo, anche la Sterlina, come la Lira, subì un pesante impulso inflattivo dovuto al forte aumento dei tassi tedeschi. Inoltre il Regno Unito era restio ad un aumento dei tassi d’interesse. Tuttavia, a differenza dell’Italia, il R.Unito non aveva alcuna crisi del debito e , dopo aver svalutato la Sterlina, potette alzare i tassi di interesse senza compiere alcuna manovra.

Il Mercoledì Nero: si sfalda il Sistema
                      Monetario Europeo - La Provincia

Mercoledì Nero. Titoli di prima pagina https://www.laprovinciacr.it/

 

 

 

E Soros?

Ma fu veramente colpa di Soros? Ancora oggi, è patetico notare come firme autorevoli, impregnate di teorie complottiste, continuano ad evocare Soros come l’affossatore della Sterlina e della Lira, nel ’92, oltre che affibbiargli, ora, altre responsabilità per la pandemia, fame nel mondo, immigrazione, inquinamento, ecc.

Soros, da navigato ed attento “finanziere”, investitore e speculatore, percepì che la situazione delle valute più deboli dello SME (Pound e Lira) questa volta era troppo pesante per indurre le rispettive banche nazionali ad ulteriori interventi di salvataggio per ricondurre le valute entro i margini di oscillazione dello SME: Tutto ciò, mentre gli investitori suoi concorrenti, indecisi, stavano a guardare.  George Soros presagì, con largo anticipo, ciò che sarebbe accaduto e decise, a suo rischio, di vendere attraverso il fondo “Quantum”, Lire e Sterline “allo scoperto” acquistando poi dollari. Vendette Sterline per oltre 10 miliardi di Dollari e, grazie a questa operazione, definita come il “colpo” più clamoroso di sempre inferto alla Banca d’Inghilterra, guadagnò circa 1,1 miliardi di dollari. Tra le altre conseguenze: la Bank of England fu costretta a sospendere la Sterlina dallo SME.  Quello stesso giorno, un’operazione analoga fu condotta contro la Banca d’Italia, causando una perdita valutaria pari a 48 miliardi di dollari.

Ecco una delle tante dichiarazioni di Soros assurto, a torto o a ragione, agli onori delle cronache: “Quella contro l’Italia fu una legittima operazione finanziaria. Mi ero basato sulle dichiarazioni della Bundesbank, la quale diceva che non avrebbe sostenuto la valuta italiana. Bastava saper leggere. Gli speculatori fanno il loro lavoro, non hanno colpe. Queste semmai competono ai legislatori, che permettono che le speculazioni avvengano. Gli speculatori sono solo i messaggeri di cattive notizie”.

 

Crisi del ’92. Una doccia fredda su Maastricht

Il mercoledì nero era solo la punta di un iceberg rispetto al contesto socio-economico e finanziario in cui era maturato il trattato di Maastricht. Non solo l’Italia e l’Inghilterra furono colpite gravemente dalla crisi valutaria ma quasi tutti gli Stati dell’Unione, seppure in misura minore, dovettero svalutare le loro monete. Ovviamente, ci furono febbrili consultazioni, a Bruxelles, tra i vari Stati interessati dove, purtroppo, e nonostante tutto, i rispettivi interessi non erano convergenti. In questo marasma, mentre le riserve valutarie dei vari Paesi decrescevano, quelle dell’Italia si erano quasi azzerate. Tutto ciò, mentre la Germania, intestardita nella persona del presidente della Bundesbank, l’ottimo Schlesinger, era determinata a non abbassare i suoi tassi di interesse e accoglieva a braccia aperte il sorprendente flusso di denaro. Contemporaneamente, dopo già essere intervenuta sul mercato, come la Banca d’Italia, in aiuto della Lira, non era più disposto” a muovere più un dito in favore dell’Italia”. Il passaparola era che la crisi riguardava soprattutto l'Italia. Come sottolinea invece Paolo Peluffo nel suo libro "Carlo Azeglio Ciampi. L'uomo e il presidente", pubblicato nel 2007 da Rizzoli, in quel settembre 1992, i partner europei stentarono a capire che si era in presenza di una crisi sistemica dello SME. Proprio come ebbe a dire Ciampi, allora governatore della Banca d'Italia, in un discorso tenuto alcune settimane dopo a Parigi: la crisi si poteva superare solo reinterpretando lo SME quale anticipazione della moneta unica; serviva un impegno collettivo oppure sarebbe stato travolto anche il più modesto meccanismo di cambio. Quella crisi, ricordata come crisi del 92-93, perdurò durante gran parte dello svolgersi delle tre fasi dell’attuazione della UEM. Influì negativamente sulla psiche degli indecisi su Maastricht anche l’esito del referendum in Danimarca che non accettò il trattato, ed il timore per la Francia in cui le aspettative per l’esito del referendum, per gli stessi motivi, erano alquanto incerte. In sostanza, proprio quando l’Europa di allora doveva approntare” la dote ed il vestito nuovo” per la Nuova Unione, la sua realizzazione sembrava quasi una mera illusione”. Nel 1993, e precisamente nel mese di luglio, le valute europee furono bersaglio di un nuovo attacco speculativo. A quel punto lo SME prese una scelta: adottò delle bande di flessibilità nel cambio molto più ampie. L’oscillazione massima consentita era del 2,25%. Da quel momento in poi fu portata al 15%. Ma la strada verso la moneta unica non sarà tutta in discesa: lo vedremo alla prossima puntata che, spero, sia l’ultima, per il grado di sopportazione dei lettori.

Ma mi sia consentito di aggiungere ancora qualcosa: quale fu la pecora nera nello scenario sopra descritto? Direi, con estrema “doglianza”: l’Italia.; dovrei tuttavia coniare (ci sto pensando) il giusto appellativo per la Germania riunita.

A questo punto cedo la parola a Piero Fornara, personaggio più qualificato di me per questo argomento, che dal Sole24 ore del 6.09.2012, commentò: 

«[…] Non vi è dubbio che il comportamento della banca centrale tedesca abbia notevolmente influito sulla crisi valutaria del 1992-93 e sulle ripercussioni che si sono riprodotte in Italia. Il ruolo dell'economia dominante della Germania, all'interno dello SME, è da ascriversi non solo alla storica saldezza della bilancia dei pagamenti tedesca, ma anche alla volontà degli altri paesi membri di considerarla tale, traendo essi stessi beneficio dalla possibilità di importare il modello tedesco in materia di controllo dell'inflazione, anche per quanto riguarda l'importanza attribuita alla stabilità dei prezzi […]».

 

PARTE SETTIMA

 

Esaminando, a ritroso, la storia recente della formazione dell’Unione europea, abbiamo amaramente constatato quanto precaria fosse la situazione dell’Italia, nel periodo immediatamente prima e dopo il trattato di Maastricht: deficit al 12% del Pil, debito pubblico a 105%, debito estero al 30%, inflazione al 5,5%, bilancia commerciale in rosso, (tutti indici tendenti al peggioramento) ecc. In quelle penose circostanze, guadagnare l’accesso a quel tavolo, di cui andiamo fieri(?), ancora oggi, appariva un vago miraggio, nonostante fosse stato da noi lungamente promosso e voluto. Purtroppo, nonostante “le lacrime e il sangue” versato (uscita dallo SME e svalutazione della Lira, manovre finanziarie da capogiro, prelievo forzato dai depositi bancari, ecc,) la crisi continuò, dopo il ’92, durante gran parte dello svolgersi delle tre fasi dell’attuazione della UEM. Inoltre, il ritardo con cui lo SME (influenzato dalla Germania) intervenne per ampliare i margini di oscillazione dei cambi, aveva ulteriormente aggravato la situazione e l’Italia, indubbiamente, appariva la nazione maggiormente compromessa per il rispetto di quei parametri così duramente “raccomandati”, negoziati e “obtorto collo”, accettati. In questo scenario, l’Italia appare completamente isolata mentre ciascun partner europeo aspirante alla Moneta Unica, è impegnato a “fare i compiti a casa” per superare le “prove di ammissione”. L’isolamento dell’Italia non era dovuto soltanto alla sua situazione economica ma anche alla delicata fase di transizione innescata da “Mani Pulite” che ha, nei fatti generato la fine ingloriosa della Prima Repubblica, creando, all’esterno, una immagine di inaffidabilità e di discredito che non s’era mai vista prima. Pesò molto, nella bilancia del discredito, l’esperienza negativa del breve Governo Berlusconi (8 mesi, tra ’94 e ‘95) il cui disinteresse per l’Europa (definito “scarso attivismo” a Bruxelles) suonò quasi come un’offesa, creando una strumentale e notevole indignazione. Fu una grossa tentazione che risvegliò quella presunzione di superiorità sempre latente e già più volte affiorata, fin dal dopoguerra, accomunando Francia e Germania che, avevano già cominciato a “pensare”, sfacciatamente, ad una “Unione Monetaria ristretta” senza l’inclusione dell’Italia. Intanto già aveva cominciato a prendere piede, fin dal ’94, un documento strategico “Riflessioni sulla politica europea” presentato dal capo gruppo parlamentare tedesco, Cdu-Csu, W. Schäuble (a me antipatico già da allora) e dal francese portavoce per la politica estera K.Lamers. Il documento, evidenziando chiaramente la visione di una Europa (superiore) del Nord ed una Europa (inferiore) Mediterranea, aveva individuato il “nucleo duro” di Maastricht, campione di riferimento per gli altri Stati intorno a quel citato tavolo: Germania, Francia e Benelux che, autoproclamati  primi della classe, sarebbero stati il “Gruppo di testa”, entro le scadenze stabilite, mentre  l’Italia e gli altri paesi membri dell’UE sarebbero stati integrati soltanto quando “avranno risolto alcuni dei loro attuali problemi e nella misura in cui essi stessi intendono assumere gli impegni di Maastricht” (sic!). Il ruolo fattivo e meritorio avuto dall’Italia fin dal dopoguerra, veniva, così, grossolanamente buttato alle ortiche. Qualche persona “per bene”, di veneranda età, commentò amaramente che tali esternazioni furono possibili solo grazie alle condizioni di mera “decadenza” dell’esecutivo comunitario creato dall’ uscita di scena di uno dei principali fautori del processo di integrazione: l’autorevole ed insostituibile Jacques Delors. Ulteriore elemento di marginalità per l’Italia fu l’entrata in vigore del trattato di Schengen, nel marzo 1995, per soli sette paesi, mentre l’Italia, come la Grecia, rimase fuori perché, pur avendo aderito (in ritardo) nel 1990, non aveva rispettato i requisiti normativi e tecnici richiesti (entrò soltanto nel 1997).  E così, nel giugno del 1995, a chiusura del semestre di presidenza francese del Consiglio Europeo, Kohl e Chirac (non li presento perché già conosciuti) compenetrati nella loro “leadership”, ignorando completamente l’Italia, riconfermano il mantenimento del programma di Maastricht: passaggio alla moneta unica non oltre il 1°gennaio 1999.A questo punto è necessaria una riflessione che aiuta a comprendere, a posteriori, gli avvenimenti che, tra il ‘92 ed il ’98 ,videro l’Italia risalire quella china pericolosa da cui era scivolata. Mentre Tangentopoli marciava spedita, tra il ’92 ed il ’96, si susseguirono a breve cadenza, dopo Andreotti, i Governi Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, e, nel ’93, Scalfaro succedeva a Cossiga alla presidenza della Repubblica. Governi fugaci che tuttavia, sotto la spinta dei “tecnici” mantennero una continuità negli straordinari tentativi di risanamento dei conti iniziati con il governo Amato, nel 93, mentre Ciampi (Banca d’Italia) riportava, gradualmente, il tasso di sconto a livelli più ragionevoli e, soprattutto, iniziava a ricostituire le riserve in valuta. In sostanza tra tanto scetticismo e confusione c’erano ancora forze vitali che non si arrendevano e che, a torto o a ragione, ritenevano che “l’aggancio” a Maastricht fosse un'unica e irripetibile occasione di salvezza e di riscatto.

 

Il governo tecnico di Dini

Purtroppo, l’atteggiamento dell’Italia, durante il breve Governo Berlusconi, diede l’appiglio ai “notabili” della Commissione per evidenziare che l’Italia era già da considerarsi “fuori”. Tuttavia, in quel governo c’era al ministero del tesoro Lamberto Dini, molto stimato in Italia e all’estero, il quale, dalla sua posizione, incise molto nel proseguimento di quei tentativi di risanamento dei governi precedenti. Infatti, alla caduta del Governo Berlusconi, lo stesso Dini ricevette da Scalfaro, l’incarico di formare il nuovo Governo, un Governo “a tempo” che, nelle sue intenzioni (molto criticate) doveva continuare la “stabilizzazione” dei conti e traghettare il Paese verso le elezioni politiche che vennero fissate per il 21 aprile 1996. Il Governo Dini durò dal 17.01.95 al 18.05.96.  Fu il secondo governo tecnico della Repubblica a soli dieci mesi di distanza dal primo governo Ciampi. Questa narrazione storica è ineccepibile, sembra tutta “rose e fiori” come potrebbe apparire da un qualsiasi sunto di storia contemporanea; ma non fu realmente così. Innanzitutto, Berlusconi si dimise perché aveva perso il supporto della Lega Nord di Bossi. Il nuovo Governo, composto esclusivamente da "tecnici" non appartenenti direttamente ai partiti politici, si prefisse come obiettivo prioritario il risanamento dei conti pubblici attraverso una serie di interventi correttivi volti a limitare il deficit statale e soprattutto attraverso l'avvio della riforma del sistema previdenziale. La nomina di Dini, già ministro del tesoro del Governo Berlusconi, fu la condizione posta da Berlusconi per l’accettazione di un esecutivo non politico (Governo tecnico). Ciò non impedì che, il 20 ottobre 1995, Berlusconi ed altri presentano alla camera una mozione di sfiducia per il Governo. Dini non si dimette perché ciò impedirebbe il completamento della legge finanziaria e di bilancio e dichiara che il suo mandato terminerà solo con l’approvazione della legge finanziaria. La mozione viene quindi discussa nei giorni successivi quando Bertinotti (Rifondazione Comunista) decide con i suoi (Cossutta) di non partecipare alla votazione permettendo così alla Camera di respingere la mozione di sfiducia.

Il 21 dicembre, viene approvata la finanziaria per il 1996 e Dini, puntualmente, presenta le dimissioni che vengono rifiutate dal Presidente. Scalfaro, infatti, il 30 dicembre, rinvia il Governo alle Camere. Il 9.01.96, il Presidente del Consiglio si presenta alla Camera per rendere comunicazioni. Il Presidente del Consiglio ricorda di aver preannunziato che il Governo avrebbe rassegnato le dimissioni dopo che fossero stati raggiunti gli obiettivi programmatici sulla base dei quali aveva ottenuto la fiducia e che tali adempimenti sono stati conseguiti. Pertanto delinea tre ipotesi possibili: il raggiungimento di un'ampia intesa sulle riforme istituzionali e la nascita di un governo di garanzia per la fase costituente; oppure, in mancanza di un accordo, il varo di un governo che sia nella pienezza dei poteri durante il semestre di presidenza italiana dell'Unione europea; infine, come soluzione estrema, l'apertura di una fase che porti alle elezioni per un nuovo Parlamento.

L’11 gennaio 1996, alla Camera si conclude, senza voto, il dibattito sulle comunicazioni del Governo con una breve replica del Presidente del Consiglio, secondo il quale, dalla discussione, la cui utilità ha confermato la bontà della scelta operata dal Capo dello Stato di rinviare il Governo alle Camere, sono emersi taluni elementi di concorde valutazione: dall'esaurimento dell'esperienza del governo tecnico all'esigenza di aprire senza indugio una fase di riforme costituzionali, alla necessità infine di salvaguardare la continuità e l'autorevolezza dell'Esecutivo durante il semestre di Presidenza italiana dell'Unione Europea.

Dini riconferma, quindi, le sue dimissioni e Scalfaro inizia un primo giro di consultazioni senza alcun risultato accettabile. Soltanto il 31 gennaio 1996, dopo una seconda e terza consultazione, Scalfaro da l’incarico al prof. Antonio Maccanico di formare un nuovo governo. Per brevità non entro nei dettagli, seppure interessanti, di questa vicenda; resta il fatto che, il 14 febbraio 1996, Maccanico rinuncia all'incarico dichiarando che "in presenza di una larga maggioranza disposta ad impegnarsi in un'opera di riforma costituzionale, sono stati posti condizionamenti politici, ostacoli e limitazioni crescenti, in particolare chiedendo al Governo di svolgere un ruolo travalicante le sue competenze istituzionali, condizionamenti che hanno reso impossibile la costituzione di un Governo svincolato dai partiti".

Il 16 febbraio 1996, Il Presidente della Repubblica avvia la procedura per lo scioglimento delle Camere. A tal fine convoca al Quirinale i Presidenti delle Camere Successivamente si riunisce il Consiglio dei ministri che approva lo schema di decreto con il quale viene fissata la data per lo svolgimento delle elezioni politiche (21 aprile 1996), nonché quella della prima riunione delle Camere (9 maggio 1996).Il Capo dello Stato, nello stesso giorno, nomina il prof. Mario Arcelli Ministro del bilancio, in sostituzione del dimissionario Rainer Masera e il prof. Vincenzo Caianiello Ministro di grazia e giustizia, ponendo termine all'interim che il Presidente del Consiglio aveva assunto dopo l'approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del ministro Mancuso. (cfr. organi parlamentari. Legislatura.camera.it.).

 

Le elezioni politiche del 1996

Le elezioni politiche in Italia del 1996 per il rinnovo dei due rami del Parlamento Italiano – la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica – si tennero domenica 21 aprile 1996. Furono le seconde elezioni anticipate a svolgersi negli anni novanta, quando per la prima volta in assoluto nella storia repubblicana, vi furono tre tornate elettorali in quattro anni. Tutto ciò avveniva nel pieno del semestre italiano di presidenza di turno del consiglio dell’Unione Europea (1 genn.-30 giugno): presidente dimissionario Lamberto Dini e Susanna Agnelli ministro degli esteri. Lo schieramento era composto da una coalizione di Centro Destra (Berlusconi a capo del Polo delle libertà) e una coalizione di centro sinistra (Prodi a capo dell’Ulivo). Alle due coalizioni (14 soggetti a Sinistra e 5 a Destra) si aggiungevano in posizione “semi-svincolata all’italiana”, la Lega Nord di Bossi, Rifondazione Comunista (Bertinotti e Cossutta), Lista Pannella e Sgarbi. Un cronista dell’epoca, un certo Indro, ha rimandato ai posteri questa narrazione: «[…] La campagna elettorale fu accanita e monotona. L’Ulivo e il Polo enunciavano programma analoghi fingendo   tuttavia di volere cose diversissime. Tutti erano, almeno a parole, per il rigore dei conti pubblici, tutti erano-per il mercato, tutti erano con slancio implacabile contro la corruzione. E tutti guardavano, con occhio affettuoso, alle esigenze delle classi lavoratrici, alle aspettative dei ceti medi, ai travagli. dei giovani, alle pene dei pensionati. Il Polo accusava Prodi e i suoi- stretti da un patto elettorale a Rifondazione comunista - d'avere, una duplice nostalgia: quella per i consociativismi, per gli immobilismi, per l'assistenzialismo e le dilapidazioni della Prima Repubblica; e quella per il marxismo e il collettivismo, sconfitti dalla storia ma riabilitati dal fascino sottile dell'utopia. L’Ulivo imputava al Polo il proposito di riproporre gli errori del governo Berlusconi, e di voler arricchire ancor più i ricchi impoverendo ancor più i poveri. In questo schema rozzo gli elettori del Polo diventavano capitalisti da caricatura di Grosz, e gli elettori. dell'Ulivo lodatori di Stalin o del pauperismo dei La Pira e dei Dossetti.  Termini come comunismo e fascismo - o postcomunismo e postfascismo - erano utilizzati come etichette polemiche. Sotto Sotto nessuno credeva sul serio a questi annunci d’Apocalisse: perché nessuno era sprovveduto e ingenuo al punto da credere che Lamberto Dini e Gerardo Bianco vagheggiassero per l'Italia un futuro da repubblica popolare del disintegrato Est, e che i ragazzi dele borgate romane ai quali piace Gianfranco Fini fossero strenui sostenitori del capitalismo prevaricatore. Chiunque avesse un minimo di buon senso capiva quanto di vacuo e di parolaio vi fosse negli opposti annunci di cambiamento profondo del paese. In Italia le grandi riforme sono sempre alla porta ma fuori dalla porta rimangono perché l'esistente, ossia la rete degli interessi consolidati e la struttura pubblica con, i suoi vizi, è un macigno pressoché inamovibile.

Lo scetticismo era con ogni probabilità il sentimento prevalente tra gli elettori (lo attesterà l’alta percentuale delle astensioni, il 17,3 %con un netto aumento rispetto alle politiche precedenti). Tuttavia Prodi, aiutato con abile discrezione da Massimo D’Alema, riuscì ad accreditare in molti italiani moderati-quelli che in un sistema maggioritario o semi-maggioritario fanno la differenza, e decidono l’esito delle elezioni- l’immagine di un Ulivo saggio e insieme compassionevole, attento al bilancio dello stato ma solidale e progressista. Cattolico osservante, pellegrino al santuario di Compostella, democristiano da sempre, Prodi era una smentita vivente a Berlusconi e Fini quando denunciavano la minaccia della sinistra atea ai valori religiosi e alla scuola libera. L’ingombrante compagnia di Bertinotti e Cossutta era giustificata con una spiegazione contorta, che alla prova delle urne risultò persuasiva. Rifondazione era estranea all’Ulivo, non ne condivideva il programma, innalzava orgogliosamente l vessillo lacero del Comunismo. Ma all’Ulivo l‘avvicinava la volontà di sconfiggere il pericoloso Cavaliere e i suoi alleati, e dunque era la benvenuta nell’ora della battaglia.»

Non vado oltre perché ci sarebbe tanto altro da raccontare e poi, Montanelli, tra il serio ed il faceto, è “unico. La mia cronistoria deve continuare per ricordare tutti i sotterfugi, gli inganni, i salassi subiti ed i sacrifici degli italiani per essere ammessi ad un Club che molti ritenevano, in quell’epoca, forse inutile, oneroso e non necessario, in quanto l’Italia poteva “fare da sé. D’altronde, come abbiamo visto in diretta, anche dopo l’iscrizione al Club, c’era chi voleva spingere l’Italia a fare marcia indietro, magari” a furore di popolo”. Comunque, la campagna elettorale di Prodi fa dell’Europa il tema centrale e un interesse nazionale primario. Nel breve tempo a disposizione, la casa editrice de “il Mulino” di Bologna, ex “Associazione Carlo Cattaneo”, pubblica libri da forti contenuti europeisti e la rivista esce con un supplemento dal titolo il Mulino/ Europa. Inoltre, organizza, il 15 marzo 1996, un convegno di alto profilo dal titolo “L’Italia in Europa”, sul ruolo italiano all’interno della Ue, in cui autorevoli figure vicine al prof Prodi, a partire dall’allora vicedirettore della Banca d’Italia, Tommaso Padoa-Schioppa, esortano l’Ulivo a investire sulla dimensione europea. In definitiva la vittoria arrise all’Ulivo anche grazie ad alcuni errori di valutazione e comportamenti sbagliati di Berlusconi che, a molti, in quel periodo, sembrava vivesse in un altro mondo. Un mondo la cui trasparenza europea durante gli otto mesi di governo aveva dato una immagine ed una credibilità estremamente negativa al confronto della coalizione di centrosinistra. E poi, il sentimento europeista italiano era veramente alto: i dati “Eurobarometro”, assegnavano all’Italia una quota dell’85% di favorevoli all’integrazione europea e 6% contrari. Checché se ne dica, Prodi era riuscito, tramite il collante dell’Europeismo a tenere su una coalizione veramente bizzarra ed eterogenea, direi impensabile, in cui spiccava, paradossalmente, una “euroscettica” Rifondazione Comunista, divisa dall’Ulivo quasi su tutto tranne che nella determinazione di sconfiggere Berlusconi. E infatti, come vedremo Bertinotti darà a Prodi soltanto un “sostegno critico” che, tuttavia avrà una sua valenza positiva.

 

Il Governo Prodi tra la protervia dei nordici e l’europeismo degli italiani

L’Ulivo uscì vincitore guadagnando 322 seggi a alla Camera dei deputati (Polo 246) e 169 seggi al senato (Polo 116).

Ovviamente, la situazione ereditata da Prodi ere per niente facile e tutti, amici e nemici l’aspettavano al varco per vedere come si sarebbe mosso nei rapporti con quell’Europa che aveva già “condannato” l’Italia. Non dimentichiamo che il deficit di bilancio doveva essere inferiore al 3% e l’Italia uscita dalle elezioni era al 6,7% (Germania e Francia al 4; Spagna al 4,4), il debito pubblico massimo poteva essere al 60% del Pil e l’Italia era al 124% (Germania 60,8, Francia 56,4; Spagna 67,8); il tasso di inflazione doveva essere “controllato” e, invece, era di tre volte superiore a quello dei paesi più virtuosi dell’Ue. E, infine, il nostro Paese doveva ancora rientrare nello SME da cui era stato escluso nel 1992. Ecco cosa dice Montanelli nella sua storia d’Italia: «Già all’indomani dell’insediamento, Romano Prodi, che ostenta ottimismo di chiara ispirazione democristiana, diede assicurazioni sulla durata e sulla solidità del suo governo. Non parlava a vanvera, se si guardava alla composizione del parlamento. La maggioranza era più che rassicurante, e i sostenitori dell’Ulivo, incluso il monello Bertinotti, gli giuravano fedeltà nel segno della vittoria su Berlusconi, e della lotta ad una possibile rivincita del Polo. Finché si ragionava del contro, ossia della necessità di fermare la destra, l’accordo funzionava a meraviglia. Funzionava invece meno, o non funzionava affatto, lo si capì già dal debutto, quando si ragionava di cosa fare, ossia dei programmi». 

Gli obiettivi erano inequivocabili: l’Italia doveva adeguarsi, entro 1l 1998, ai parametri di Maastricht.

Il professore (chiamiamolo così) aveva una pesante sfida da affrontare col Consiglio Europeo ma anche con gli italiani, che sulla base delle promesse elettorali, non “avrebbero dovuto essere “toccati” (chi ci credeva?). Aveva comunque caratterizzato il suo governo in senso europeista inserendo personalità ben note ed accettate in Europa. Fra queste spiccavano Dini agli Esteri (segno di continuità col suo precedente governo, già ben visto a Bruxelles), Carlo Azeglio Ciampi, super ministro dell’Economia, molto stimato in campo internazionale e soprattutto in Germania, Giorgio Napolitano all’ Interno. L’esordio del professore al Consiglio Europeo di Firenze (21, 22 giugno 1996) in chiusura del semestre italiano, mentre accreditò una maggiore credibilità, fu deludente in merito al timido tentativo di chiedere un ammorbidimento dei parametri di Maastricht e di rinviare le fatidiche date degli adempimenti. Constatata l’impraticabilità di questa soluzione, non c’è altra alternativa che preparare un “finanziaria” adeguata a raggiungere, velocemente, le condizioni necessarie all’aggancio alla moneta unica. I conti furono presto fatti: di fronte a certe situazioni i numeri corrono molto veloci. La finanziaria aveva una valenza di soli 32.400 miliardi che, certamente non potevano essere estratti dal pozzo di San Patrizio dove, negli anni precedenti, erano finite cifre ben più grosse.

 

Il mancato asse italo-ispanico ed il guizzo d’orgoglio degli “esaminandi” Italiani

Il professor, mentre tutto il sistema interno era concentrato a digerire quella gravosa ipotesi di Finanziaria, gioca un’ultima carta sul piano comunitario in occasione del vertice italo-spagnolo di Valencia (16-17 settembre 1996).  Le versioni della stampa internazionale e quelle degli interessati sono un po’ controverse e hanno suscitato molte perplessità. Tuttavia, è interessante e significativa la versione, degna di fiducia dell’emerito ambasciatore Sergio Romano, sul Corriere della Sera del 17 maggio 2010, in risposta ad un lettore:

«L’episodio spagnolo ebbe una parte importante nella storia della nostra «marcia all’euro» e merita di essere ricordato. Nel settembre del 1996, a pochi mesi dalle elezioni e dalla formazione del suo governo, Romano Prodi andò a Valencia per un incontro con il presidente del Consiglio spagnolo, José Maria Aznar. Due settimane dopo Aznar «rivelò» al Financial Times che Prodi aveva cercato di convincerlo a fare fronte comune per ammorbidire i parametri di Maastricht […] Ma la Spagna aveva i conti in ordine e non intendeva prendere iniziative che avrebbero intaccato la sua credibilità economico-finanziaria. Prodi negò di avere avanzato richieste ed ebbe una tempestosa conversazione telefonica con Aznar di cui non conosciamo il contenuto. Sappiamo tuttavia che nelle settimane seguenti il ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi raddoppiò la manovra della Finanziaria 1997: da 32.500 a 62.500 miliardi. Dobbiamo l’euro, quindi, all’orgoglio spagnolo e alle indiscrezioni di Aznar. Lei si chiede, caro N.N. se la situazione economico-finanziaria della Spagna nel 1996 fosse davvero quella descritta da Aznar. Non credo che i conti spagnoli siano stati truccati. La Spagna ha saputo trarre profitto dal suo ingresso nella Comunità europea e ha fatto un buon uso dei fondi infrastrutturali dell’Unione. Ma ha una base industriale più piccola di quella italiana e aveva nel 1996, mentre Aznar rivendicava orgogliosamente i meriti del suo governo, un tasso di disoccupazione pari al 20,61% della forza lavoro. Da allora la situazione è andata progressivamente migliorando e negli anni del governo Zapatero, in particolare, la disoccupazione è scesa dall’ 11,11% del 2004 all’8,30% del 2008. È quello il momento in cui la Spagna, ansiosa di accedere al G8, sostiene che il suo prodotto interno lordo pro capite aveva superato quello dell’Italia. Ma il «miracolo» spagnolo era il risultato di una sfrenata politica edilizia che ebbe effetti comparabili, su scala più piccola, a quella americana della finanza facile e della «casa per tutti». L’occupazione era cresciuta, ma nel settore che fu maggiormente colpito dalla crisi e che restituì immediatamente i suoi nuovi dipendenti al mercato dei senza lavoro. Nel quarto trimestre del 2008, la disoccupazione spagnola era al 13,9%. Oggi avrebbe superato il 22%, vale a dire circa 4 milioni di persone. Ne deduco che per l’Italia il vertice fallito di Valencia fu, tutto sommato, un’utile lezione. Noi dovremmo quindi essere grati ad Aznar; i suoi connazionali, no».

Prodi e Ciampi, pur riconoscendo che l’Italia avrebbe potuto entrare in un secondo tempo come auspicato dai partners “nordici”, erano consapevoli che non sarebbe stata la stessa cosa. Ciampi affermò, successivamente, che, senza l’Italia, sarebbe nato un Euro a larga prevalenza mitteleuropea. In sostanza, si può affermare che l’inusitata insolenza e la ferma “determinacion” di Aznar di far parte del primo gruppo ad essere ammesso alla unione monetaria, dovette essere un forte pungolo per ritrovare un orgoglio ed una determinazione tutta italiana.

Con questo spirito, la nuova (azzardata e straordinaria) manovra finanziaria da 62.500 miliardi di lire, sopra citata, fu concepita in una riunione ristretta a Palazzo Chigi a cui partecipano Prodi, il vice-premier Veltroni e i ministri economici Ciampi, Treu e Visco. Il presidente del Consiglio punta a garantire la credibilità europea dell’impegno italiano con il varo di una “euro-tassa” ad hoc e una serie di vertici bilaterali (il 3 e 4 ottobre 1996 a Napoli con il presidente francese Chirac e una successiva visita a Bonn, per un incontro con Kohl). I vari incontri bilaterali creano in Europa un clima di progressiva fiducia attorno a Prodi e Ciampi che viene coronata dal rientro nello SME dopo quattro anni (24 novembre 1996) dopo un’intensa trattativa sul cambio, con la fissazione della parità della lira con il marco a 990 lire. Un ulteriore ritocco alla Finanziaria fu l’Euro-tassa (Contributo straordinario per l’Europa) che fu approvata dal Governo Prodi il 30 dicembre 1996 con il “decretone di fine anno” che implicava una manovra tributaria di 4 300 miliardi di lire necessari per ridurre il disavanzo dello Stato di un ulteriore 0,6%. Venne prelevata ai lavoratori dipendenti in nove rate mensili da marzo a novembre 1997; per i lavoratori autonomi, o comunque titolari di redditi oltre a quello da lavoro dipendente, fu previsto un versamento in due rate con scadenza al 31 maggio e al 30 novembre 1997. Il decreto prevedeva la restituzione del 60% del prelievo nell’anno successivo, avvenuta a partire dalla fine del 1998.L’Euro-tassa fu molto criticata perché esprimeva l’incapacità del Governo di trovare rimedi alternativi. Ma i tempi erano molto stretti e c’era ancora tanto da fare in anticipo sulla successiva finanziaria del 1998 che sarebbe stata l’ultimo e risolutivo sforzo per quell’ammissione tanto agognata. In definitiva, l’euro-tassa fu, sorprendentemente, ben digerita dagli italiani, nonostante tutto. A questo punto, il 1997, rimaneva ancora un anno cruciale per il Governo Prodi impegnato, all’estero, per riguadagnare la fiducia perduta e, all’interno, per il risanamento dei conti. All’estero, Ciampi ebbe un ruolo determinante.: Il Sole24ore (D. Pesole) in una rievocazione del 13.02.2020, scrive:” il superministro del tesoro si era impegnato in una ardita scommessa che condusse, forte del suo prestigio, ma anche con l’umiltà del “commesso viaggiatore” in giro per le capitali e le piazze finanziarie europee a convincere i dubbiosi partner europei e i mercati. È la chiave di volta si chiamava fiducia. Non a caso, se si guardano le cifre, buona parte del risanamento della finanza pubblica fu condotto sul versante della spesa per interessi, chiave e termometro dell’affidabilità del Paese”.

 

I capricci di Bertinotti, comunista incorreggibile e instabile

Per quanto riguarda l’interno, invece, già il 9 aprile: scoppia la prima grande crisi con Rifondazione. La missione “Alba” in Albania viene approvata con i voti del Polo. Nei giorni successivi Rifondazione ci ripensa e torna a votare la fiducia al governo.

Nel mese di luglio 1997 era stato varato il DPEF (Documento di programmazione economica) per il 1998 che prevedeva col consenso di Bertinotti, 8.000 miliardi di risparmio sulla spesa previdenziale. La manovra di 25.000 miliardi, 10.000 nuove entrate e 15.000 di tagli era molto più leggera se raffrontata ai a quella dell’anno precedente. Tuttavia, i sindacati, pur essendo ben disponibili nella trattativa con il governo riuscirono a ridurre la mutilazione della spesa previdenziale da 8.000 a 5.000 miliardi. La situazione si mantenne tranquilla fino 9 ottobre 1997 quando il “monello” Bertinotti, forse preso dal rimorso, quasi terrorizzato all’idea di abiurare, col suo “collaborazionismo”, alla sua origine vetero-comunista, comincia, quindi, a dichiarare, seguito da Cossutta, che Rifondazione non approverà la Finanziaria.  Non sto qui a raccontare le sceneggiate dense di polemiche, nuove rivendicazioni e dichiarazioni tese a voler salvare, di fronte al mondo, una reputazione e una storia ormai compromessa. Prodi, col suo atteggiamento “bonaccione” sembra sottovalutare le minacce di Bertinotti ma è poi costretto a prenderlo sul serio quando comincia ad intervenire anche il presidente Scalfaro. (Montanelli commentò: “Bertinotti versus Scalfaro: duello non solo di idee, ma di erre mosce”). In definitiva, la maggioranza stava per frantumarsi. Ci fu anche un intervento di Berlusconi che offrì la mano prospettando “larghe intese” da sostituirsi al sostegno alla maggioranza da parte di Bertinotti, per l’approvazione della Finanziaria nel supremo interesse per l’Europa. Ma Prodi rifiutò dignitosamente e giocò (si fa per dire) la sua carta: seconda crisi, sale al Quirinale e rassegna le dimissioni.

Nel frattempo, il 10 ottobre 1997 il segretario di Rifondazione Comunista si dice pronto a un nuovo accordo.

Il 14 ottobre 1997 Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro respinge le dimissioni di Prodi e rinvia il governo alle Camere.

16 ottobre 1997 – Il governo ottiene la fiducia alla Camera con 319 sì, 285 no e 2 astenuti. In serata l’esecutivo ottiene la fiducia anche in Senato con 168 sì e 64 no, chiudendo quindi la crisi di governo.

 

La meta raggiunta nonostante tutto

Il 23 dicembre 1997 la finanziaria 1998 ottiene l’ultimo voto positivo del Parlamento.

Il giorno precedente, il Fondo Monetario, che ha grande stima dei nostri tecnici e ci osserva con più amichevole attenzione di Bruxelles, aveva reso noto, da Washington, che l’Italia aveva raggiunto l’obiettivo del 3%, mentre Parigi e Berlino sono ferme al 3,1% nel rapporto deficit/Pil. Facendo sfoggio di moderato ottimismo, il ministro Ciampi può addirittura aprire l’anno, il 2 gennaio, parlando del 2,7% per l’anno appena concluso.

13 febbraio 1998 – Viene annunciata la nascita dei Democratici di Sinistra, nuovo partito politico nato dell’unione di Partito Democratico della Sinistra, Movimento dei Comunisti Unitari, Federazione Laburista, Sinistra Repubblicana, Cristiano Sociali e altre formazioni minori.

5 marzo 1998 – Avviene una scissione nel Centro Cristiano Democratico. La componente del partito legata a Clemente Mastella lascia il partito e fonda i Cristiano Democratici per la Repubblica (CDR), i quali formano un gruppo unico con i Cristiani Democratici Uniti (CDU).

Il 9 marzo, Ciampi si reca a Bruxelles per illustrare il nuovo DPEF, che dovrà garantire proprio la sostenibilità del risanamento italiano e ottiene il plauso della Commissione. E di lì a poche settimane, precisamente il 25 marzo, l’Italia è ammessa ufficialmente a far parte del nucleo di 11 Paesi che il 2 maggio sanciranno la nascita della moneta unica [76].

2 aprile 1998 – La Camera respinge (con 251 sì, 304 no e 1 astenuto) una mozione di sfiducia di Lega Nord, Alleanza Nazionale, CDR e CDU contro il ministro dei Trasporti e della Navigazione Claudio Burlando.

17 aprile 1998 – Il governo presenta il Documento di programmazione economica e finanziaria.

29 aprile 1998 – Le Commissioni finanze di Camera e Senato approvano il Dpef. Oltre all’Ulivo e al PRC hanno votato a favore anche i parlamentari di CDR e CDU. Ormai la finanziaria cruciale per il 1999 e per l’Euro è cosa fatta.

1º maggio 1998 – L’Italia viene ammessa ad entrare nel gruppo dei primi paesi dell’Euro.  C’è poco da aggiungere: Prodi ed il suo team di tecnici ha finalmente vinto la sua lunga e cruenta battaglia per l’Europa.

Sono reperibili nella stampa riguardante tutto l’iter italiano verso l’euro, gli improperi, le frasi e dichiarazioni offensive e denigratrici dell’Italia espresse da finanzieri e politici, soprattutto tedeschi e francesi a cui non sempre i nostri hanno, a torto o ragione, duramente replicato.

Sta di fatto che da questa data, l’atteggiamento del Club cambiò radicalmente. Spettava a “Noi”, ora, riscuotere maggior rispetto e considerazione.

 



Ma non finisce qui:

10 maggio 1998 – Nascono i Socialisti Democratici Italiani, nuova formazione politica derivata dalla fusione di Socialisti Italiani, Partito Socialista Democratico Italiano e altre formazioni minori.

30 maggio 1998 – La Camera respinge (con 46 sì e 310 no) una mozione di sfiducia presentata da Lega Nord, CDR e CDU contro i ministri Giorgio Napolitano e Giovanni Maria Flick.

2 luglio 1998- I Cristiano Democratici per la Repubblica e i Cristiani Democratici Uniti si fondono nell’Unione Democratica per la Repubblica (UDR), guidata da Francesco Cossiga, Clemente Mastella e Rocco Buttiglione.

4 ottobre 1998 – Rifondazione Comunista annuncia il suo passaggio all’opposizione. Il governo perde quindi la maggioranza alla Camera

5 ottobre 1998 – Armando Cossutta, in dissenso con Bertinotti per la decisione di passare all’opposizione, si dimette dalla carica di Presidente di Rifondazione Comunista.

6 ottobre 1998 – L’Assemblea dei Deputati di Rifondazione Comunista respinge a larga maggioranza la linea di rottura con le altre forze di centro-sinistra. I parlamentari affermano però che si adegueranno alle decisioni del partito.

7 ottobre 1998 – Alcune centinaia di militanti e dirigenti locali di Rifondazione Comunista vicini a Cossutta, non riconoscendosi nella decisione di Bertinotti, si autoconvocano presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma con l’intento di non arrivare alla rottura con Prodi per impedire il ritorno delle destre al potere. L’assemblea è guidata da Iacopo Venier, segretario della federazione di Trieste e, in tale occasione, è firmato un appello intitolato: Non c’è salvezza per il partito se rompe con il popolo, con i lavoratori, con il Paese.

8 ottobre 1998 – Prodi rende comunicazioni alla Camera e chiede la fiducia.

9 ottobre 1998 – Durante il dibattito sulla fiducia al governo, il capogruppo di Rifondazione Comunista alla Camera, Oliviero Diliberto, annuncia che la maggioranza del gruppo parlamentare voterà a favore del governo Prodi. Bertinotti dichiara invece la sfiducia. Pochi minuti dopo la Camera nega (con 312 sì e 313 no) la fiducia al governo. Prodi rassegna le dimissioni;

11 ottobre 1998 – 21 deputati e 6 senatori di Rifondazione Comunista abbandonano il partito e costituiscono il Partito dei Comunisti Italiani. Il partito entra nella maggioranza e garantisce appoggio ad un governo di centro-sinistra

14 ottobre 1998 – L’Unione Democratica per la Repubblica si dichiara disponibile ad appoggiare un governo di centro-sinistra a patto che non sia guidato da Prodi.

21 ottobre 1998 – Massimo D’Alema diventa il nuovo Presidente del Consiglio con l’inizio del Governo D’Alema I.

 


Conclusioni

Molti furono i dubbi sui reali motivi della fine del Governo Prodi e sul suo atteggiamento che, se fosse stato più combattivo, e sapeva esserlo, gli avrebbe fatto superare, anche di poco, i voti di sfiducia. Qualche ingenuo cronista “straniero” contemporaneo, sensibile alla narrativa “epica”, giunse a scrivere che l’Italia, per essere ammessa a quell’esclusivo Club, aveva sacrificato uno dei suoi figli miglior(!) Oggi possiamo dire (?) alla luce dei fatti, che Prodi aveva fatto bene i suoi conti e i suoi programmi: accordo per passare la mano a D’Alema per concentrarsi sulle elezioni europee, contando sulla reputazione che si era guadagnata nella gestione del risanamento dei conti dell’Italia. Questo pensiero si inserisce nella più ampia strategia di una leadership di Prodi alla Commissione, già circolata all’inizio del 1998 nell’entourage del professore. Il suo governo, infatti, soprattutto per aver portato l’Italia nella moneta unica, ma anche per la presenza stessa di Prodi nel Partito popolare europeo, attraverso il gruppo Popolari e democratici per l’Ulivo, riscuoteva grandi simpatie in Germania ed in Europa. Sembra coerente l’idea che, nel caso Prodi avesse abbandonato palazzo Chigi per Bruxelles, D’Alema, leader più rilevante dell’Ulivo, sarebbe stato candidato volentieri dallo stesso professore. La fiducia sarà poi votata alla Camera il 23 ottobre, al Senato il 27 ottobre 1998.

Il suo governo si concluse il 9 ottobre 1998 sfiduciato per un voto alla Camera dei deputati in seguito al ritiro dell'appoggio di una parte del gruppo di Rifondazione Comunista, in rottura con la linea politica della coalizione dell'Ulivo, durante le fasi di approvazione della nuova legge finanziaria. La crisi di governo si risolse con la successione a Massimo D'Alema, mantenendo una continuità di indirizzo politico e con diversi ministri che vennero confermati nel proprio ruolo. L'esclusione di Prodi creò una crisi all'interno della coalizione dell'Ulivo, e nel febbraio 1999 Prodi fondò I Democratici, un movimento politico avente lo scopo di unire in un unico partito coloro che si riconoscono nell'Ulivo. Nel marzo del 1999 Romano Prodi fu nominato Presidente della Commissione europea, lasciando quindi la guida del nuovo movimento. Fu, soprattutto un riconoscimento forse più dei suoi nemici che degli stessi italiani che avevano versato lacrime e sangue per realizzare il sogno dell’Euro. Va detto che, partecipando all'elezioni europee, Prodi raccolse il 7,8% dei consensi.

Siamo arrivati finalmente all’Euro, è vero! Ma non è solo una meta raggiunta: è un nuovo punto di partenza. Abbiamo visto che nessuno ci ha fatto sconti ma anche constatato che i sacrifici imposti agli italiani e gli sforzi “congiunti” di una sgangherata classe politica italiana sono riusciti a superare, seppur di poco, gli atavici egoismi e i tentativi di sopravvivenza di ideologie e formule cancellate dalla storia. In tutto ciò abbiamo riguadagnato il consenso e la fiducia di un Europa dove dovremo far valere la nostra presenza, contrastare gli egoismi e i privilegi, e imporci con determinazione per l’affermazione di un “sovranismo europeo” degno di rispetto e autorevolezza nel complicato contesto geopolitico. Se poi L’Euro sia stato un bene o un male per noi Italiani e per l’Europa, ce lo sta rivelando la Storia, giorno per giorno. Parleremo, comunque, dell’impatto per noi italiani nella prossima e ultima puntata.

Nel frattempo, vorrei chiudere con una riflessione profetica di Montanelli che riguarda la politica italiana emersa in questa controversa stagione dell’Euro e non solo […] si è perpetuata l’anomalia di questa stagione della politica italiana: l’opposizione che il governo deve tenere a bada non è quella ufficiale, è quella interna alla maggioranza. L’anomalia durerà, quale che sia lo schieramento al potere, finché dureranno in Italia non solo regole imperfette avvolte da una giungla di cavilli, ma un costume politico bizantino, allergico alla chiarezza. Un costume che ci propina le quasi-crisi, le quasi-maggioranze, le quasi-riforme. E non c’è rimedio.”

 

PARTE OTTAVA

Ultima puntata

 

Tra sproloqui ed omissioni, verità nascoste o rivelate, abbiamo percorso un lungo periodo storico dell’Europa, in un contesto socio politico occidentale, che ha vissuto prevalentemente la contrapposizione col Blocco Sovietico poi illusoriamente ammorbidita durante gli ultimi quattro lustri. Abbiamo visto e descritto, dalle cronache, come gli Stati che progressivamente hanno aderito al progetto Europa  si siano mossi fino ad oggi , crogiolandosi in una marea di iniziative finalizzate alla realizzazione di quel sogno  Europeo che credevamo fattibile e per cui , prima gli Stati fondatori e poi gli altri,  qualcuno più, altri meno, si sono  mossi, tra accelerazioni e rallentamenti determinati, di fatto, da interessi contrastanti che non è stato possibile ricondurre nel giusto alveo  dell’obiettivo comune. E quindi, nonostante tutto, l’Europa, ancora oggi, nonostante sia stata realizzata l’Unione Monetaria e l’Euro, è rimasta ancora quella che era alle origini: un’idea. Tuttavia, come proposto fin dall’inizio di questa rassegna, si voleva raccontare la strada percorsa per raggiungere la Moneta Unica verso cui, tutti noi, nutrivamo forti dubbi, fin dall’inizio, per le modalità e condizioni d’ingresso. Si era giunti fino al punto in cui era nata una forte corrente di pensiero che propugnava la fuoriuscita dai trattati europei.  Anche con un referendum. Una corrente divenuta “euroscettica” con appartenenti sempre diversi, che si alimentava ed esasperava all’insorgere di ogni difficoltà. Difficoltà che, come abbiamo visto, richiedevano un fattivo e autorevole intervento all’interno della compagine europea e non dall’esterno.

Oggi, credo che ci sia una maggiore consapevolezza che, ogni singolo Stato può maggiormente incidere sulle decisioni dell’Unione intorno al tavolo comunitario anziché “abbaiare” con tono “sovranista” dall’esterno. E anche noi italiani è lì che dobbiamo imporci. Non trovate?

 




1gennaio 1999: l’Euro diventa la Moneta Unica Europea



                                                                                        Europa moneta unica

Foto tratta da Città Nuova 8 NOVEMBRE 2018



La Moneta Unica Europea, l'Euro, nacque il 1° gennaio 1999 e fu adottata da 11 paesi (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna). A questi si aggiunse la Grecia, che rientrò nei parametri economici richiesti solo nel 2000 e fu ammessa “eccezionalmente” nell'eurozona il 1º gennaio 2001. In questi primi dodici Stati l'Euro entrò ufficialmente in circolazione il 1º gennaio 2002 sotto forma di monete e banconote. La Grecia fu seguita dalla Slovenia nel 2007, da Cipro e Malta nel 2008, dalla Slovacchia nel 2009, dall'Estonia nel 2011, dalla Lettonia nel 2014 e dalla Lituania nel 2015. Oggi la “zona euro” conta 19 Stati membri dell’UE.

Degli Stati membri al di fuori di quest'area, la Danimarca dispone di una clausola di non partecipazione (opt-out) stabilita nei protocolli allegati al trattato, pur potendo aderire in futuro, se lo desidera. I restanti Stati membri, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania e Svezia che non appartengono alla “zona euro” sono tra quelli che hanno aderito all’Unione Europea nel 2004, nel 2007 e nel 2013, dopo il varo dell’Euro. Al momento della loro adesione, non soddisfacevano le condizioni necessarie per l’ingresso nella “zona euro”, ma si sono impegnati a entrarvi a far parte se e quando rispetteranno i criteri di ammissione. Nel frattempo, sono Stati membri con una "deroga".

Andorra, Monaco, San Marino e la Città del Vaticano hanno adottato l’Euro come moneta nazionale in virtù di specifici accordi monetari con l’UE e possono emettere le proprie monete in Euro entro certi limiti. Tuttavia, dato che non sono Stati membri dell’Unione Europea, non fanno parte della Zona Euro.

Il 1° gennaio 1999, con la definitiva adozione dell'Euro, da parte degli 11 Paesi, ha cessato di esistere l'ECU, la moneta europea nominale, il cui valore era calcolato sulla base di un paniere di valute nazionali (vedi parte sesta). L'ECU era composto da una somma fissa degli importi delle valute nazionali circolanti negli Stati membri dell'Unione europea al momento della firma del Trattato di Maastricht, nel febbraio del 1992. Questa composizione fu "congelata", in accordo al trattato, fino al 1º gennaio 1999. In questa data, l'ECU venne sostituito dall'Euro, la moneta unica europea, secondo il rapporto 1:1, per cui un Euro al 1º gennaio 1999 aveva lo stesso valore di un ECU al 31 dicembre 1998. A differenza dell'ECU, l'Euro non ha più la caratteristica di paniere e viene cambiato con le varie monete nazionali secondo rapporti di conversione fissi. Furono quindi fissati, in via definitiva, i tassi di conversione fra le valute nazionali e l’Euro. Ecco i cambi di alcune valute, rilevate dalla “griglia delle parità” sull’Euro: Italia: 1.936,27 Lire; Francia: 6,55957 Franchi; Germania: 1,95583 Marchi. E’ d’obbligo precisare che questi cambi non furono frutto di compromessi e trattative o improvvisati, né il 31.12.98, né il 1°gennaio 2002: sono il risultato di un criterio di calcolo stabilito nel 1979, quando insieme all’AEC (Accordi Europei di Cambio), la UE diede vita al Sistema Monetario Europeo e l’ECU gettò le basi per lo sviluppo successivo dell’Euro (vedi parte sesta). Con l'introduzione dell'Euro, si è dato, conseguentemente, inizio anche a una politica monetaria unica da parte della Banca Centrale Europea.

Dal 1° gennaio 1999, l'Euro fu impiegabile per tutti i pagamenti che non richiedevano l'uso del contante. Dallo stesso giorno, i paesi aderenti emisero titoli del debito pubblico esclusivamente denominati in Euro. Al 1° gennaio 2002, l'Euro. entrò in circolazione anche nella forma di banconote e monete metalliche. A quella data, tutti i prezzi e le remunerazioni furono espressi in Euro. Le vigenti valute nazionali persero corso legale dal 1° luglio dello stesso anno. L'Euro è quindi amministrato dalla Banca Centrale Europea (BCE), con sede a Francoforte sul Meno, e dal Sistema Europeo delle Banche Centrali; il primo organismo è responsabile unico delle politiche monetarie comuni, mentre coopera con il secondo per quanto riguarda il conio e la distribuzione di banconote e monete negli Stati membri.


La BCE prima dell’Euro


                                                                                               banca centrale europea, Francoforte sul Meno,
                      Germania

La sede della BCE a Francoforte sul Meno



Dal 1° gennaio 1999 gli Stati membri dell’UE aderenti all’area dell’Euro hanno trasferito alla BCE la sovranità monetaria. Insieme alle banche centrali nazionali degli Stati membri dell’UE che hanno introdotto l’Euro nella terza fase dell’unione monetaria europea (19 nel 2015) costituisce l’Eurosistema, che è governato dal Consiglio direttivo e dal Comitato esecutivo della BCE. Insieme alle banche centrali nazionali di tutti gli Stati membri dell’UE (inclusi quelli che mantengono la moneta nazionale), costituisce il più ampio Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC). Obiettivo primario della politica monetaria condotta dal SEBC è il mantenimento della stabilità dei prezzi.

Alla BCE è riconosciuta personalità giuridica distinta da quella dell’UE e piena indipendenza sia dai governi dei paesi membri, sia dalle altre istituzioni e dagli organi comunitari. I componenti dei suoi organi direttivi godono di garanzie che li mettono al riparo da qualsiasi pressione esterna. Essa gode inoltre di autonomia finanziaria, in quanto fa fronte alle spese di gestione (e d’investimento) con i proventi della propria attività.
Alla BCE sono riservati: il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote all’interno dell’area dell’Euro, la gestione delle riserve valutarie ufficiali dei paesi nell’area dell’Euro, la politica del cambio con paesi terzi e la promozione del buon funzionamento del sistema dei pagamenti. Unitamente alle banche centrali nazionali partecipanti al SEBC, la BCE formula la politica monetaria per l’area dell’Euro, in coerenza con l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi, individuando le linee strategiche da seguire, le modalità con cui condurre la politica monetaria, gli strumenti da utilizzare. Adotta gli indirizzi e le decisioni necessari ad assicurarne l’attuazione.

Il Consiglio direttivo, composto dai membri del Comitato esecutivo e dai governatori delle banche centrali nazionali del SEBC, è l’organo decisionale supremo della BCE. L’attività corrente è gestita dal Comitato esecutivo (presidente, vicepresidente e 4 membri), che dà attuazione alle decisioni di politica monetaria e agli indirizzi del Consiglio direttivo e impartisce le istruzioni relative alle banche centrali nazionali.
Alla luce di tutti gli avvenimenti del primo ventennio dell’adozione dell’Euro, è importante evidenziare il ruolo della BCE che, mentre ha reso possibile l’utilizzo della Moneta Unica, con i suoi pregi e i suoi difetti, ha chiaramente messo alla luce una macroscopica incongruenza della UE: la presenza attiva di una autorità monetaria sovrannazionale che agisce in nome di una istituzione che non esiste, o meglio, un agglomerato di stati sovrani vincolati da trattati internazionali. Conseguentemente, è apparso ben evidente, soprattutto nella crisi epocale iniziata il 2007-08, come da una parte era stato costruito un modello incentrato sulla sola stabilità della moneta e della saldezza degli ordinamenti finanziari, dall’altra gli Stati venivano lasciati a competere su base nazionale, ciascuno con problemi diversi dall’altro (vedasi Grecia, ecc.). Cercherò di sviluppare più avanti questo aspetto se ci riesco.


Le reazioni in Italia all’entrata in vigore della Moneta Unica

 

Quel giorno fatidico del 1°gennaio 2002, alla presidenza della Repubblica c’era Carlo Azeglio Ciampi e, Silvio Berlusconi era Presidente del Consiglio, in carica, al suo secondo mandato, già dall’11.06.2001 Al Ministero dell’Economia e Finanze Giulio Tremonti e, alla direzione di Bankitalia, Antonio Fazio. Tocca, quindi, al governo Berlusconi accompagnare l’Italia nell’adozione della nuova moneta, in circolazione dal primo gennaio 2002 in coesistenza con la Lira per i primi tre mesi.

Ovviamente scriverò delle prime reazioni e di quelle successive insieme alle critiche e agli apprezzamenti circolati nel corso del ventennio, fino ad un consuntivo che tutti potremmo fare alla luce degli avvenimenti geopolitici di questo periodo a cui si è aggiunto, in extremis, la pandemia e l’anacronistica e incredibile invasione dell’Ucraina. 

E vedremo che i sentimenti nei confronti dell’Euro, se pur variabili stanno migliorando

nella stessa misura con cui crediamo che l’Euro è solo un primo e fondamentale caposaldo dell’integrazione e crediamo, avendone tutte le ragioni, che non sia più tempo di indugi, remore e tutela di privilegi dannosi e anacronistici.

Mi sono prefisso una graduatoria delle critiche e dei “pro” e dei “contro” che, inevitabilmente include anche manifestazioni variabili e passaggi disinvolti da un campo all’altro, alla luce degli eventi successivi e delle mutevoli opportunità.

Comincio da una considerazione fondamentale che, ovviamente, attiene all’essenza dell’Europa stessa e alla sua integrazione incompiuta: circola, con intensità variabile a tempi alterni, una convinta percezione di una sovranità pericolosamente compromessa dagli adempimenti passati e futuri previsti dai “Trattati” europei. Ovviamente parliamo dell’Italia, ma si tratta di un sentimento comune a tutti gli Stati membri, anche se, forse, con minore intensità. Si tratta di una insopportabile menomazione, forse parzialmente giustificata, all’inizio, ma non giustificabile ora, dopo 20 anni di questa esperienza europea. La menomazione deriverebbe dalla deprecabile decisione dell’Italia di aver rinunziato alla sua sovranità monetaria ed economica (e altre sovranità, in futuro). Non ci sarebbe, dunque, altro rimedio che uscire dall‘Euro per poter recuperare spazi di sovranità per la politica monetaria e per le altre politiche economiche. Si potrebbero adottare misure efficaci a sostegno dei paesi membri e ritornare, così, allo status precedente in cui, tutti i Paesi erano pienamente sovrani nella conduzione della politica economica, in particolare quella monetaria. “Non fa una grinza!” come dire: “stavamo meglio quando stavamo peggio”. Una teoria veramente suggestiva ed avventata che non tiene conto di quanto abbiamo toccato con mano in questi ultimi 20 anni. Una teoria che continua ad illudere gli sprovveduti, sia in buona che cattiva fede, ma che abbiamo notato, si è andata, forse temporaneamente ridimensionando negli ultimi anni. Innanzitutto, siamo tutti, pregiudizialmente, critici verso la Germania: abbiamo la sensazione di subire, dalla” Prima della Classe”, prevaricazioni e arroganza, a torto o a ragione. E’ vero: i tedeschi, come abbiamo visto, non hanno mai fatto alcuno sforzo per sembrare più simpatici o mostrarsi più modesti nei rapporti comunitari.

Ma come la mettiamo quando constatiamo che, in questa epocale vicenda dell’Euro, i tedeschi, per primi, si sono fatti convincere, anche dagli italiani, a rinunziare al “glorioso” e invadente Marco e ad accettare di non avere più il controllo sulla propria moneta? Come possiamo pensare ed illuderci che l’Italia e gli altri Paesi possedessero una sovranità monetaria prima dell’Euro? Ci siamo dimenticati della crisi valutaria italiana del 1992-93? (vedi parte sesta) Non voglio insistere su questa mia idea legata soltanto alla rievocazione di alcune vicende ma, credo, sia molto più autorevole la voce dell’economista Lorenzo Bini Smaghi su questo argomento che, già dal 2.05.2014, su “La voce” tuonava contro il “falso mito” della sovranità: “[…] Per la maggior parte degli altri paesi, la sovranità monetaria era di fatto inesistente prima dell’Euro, poiché mantenevano uno stretto rapporto di cambio tra le loro monete e il Marco. Le decisioni delle rispettive banche centrali seguivano di pochi minuti quelle della Bundesbank.  Adottando l’euro, questi paesi hanno in realtà guadagnato – e non perso – sovranità, poiché hanno ora il potere di designare un membro del Comitato direttivo della Bce. Ritornare alla situazione precedente all’Euro non garantirebbe dunque a nessuno, eccetto che alla Germania, di recuperare sovranità e di poter gestire la propria moneta in modo indipendente (!) […]”. Chiaro no? Nel frattempo la Germania, anche col nostro gradimento a sensi alterni, continua ad essere la “prima della Classe” e un punto di riferimento. Chissà perché?

Sgomberato questo campo, l’altro argomento di critica popolare, spesso emerso in questi anni, è stato il cambio di 1936,27 Lire per un Euro: “si doveva fare meglio, si doveva negoziare e non farci infinocchiare” (sic!). Sono panzane a cui è stato già replicato sopra. Aggiungo, “ad abundantiam”, per chi non ricorda, che il cambio era legato a una storia più lunga, quella del Sistema Monetario Europeo, di fatto congelato, fin dal 1997, e alla necessità di tutelare le esportazioni italiane.

Ma veniamo ora all’argomento che ci sta più a cuore e che, paradossalmente, attiene più al comportamento dei nostri governanti di quell’epoca che al disastroso effetto provocato alle famiglie italiane. Già alla vigilia della epocale svolta, molti erano i timori e gli allarmi: esperti d’ogni provenienza, sindacati, consumatori, e cittadini erano preoccupati e l’atmosfera dell’attesa non era per niente serena. Ciò nonostante, il Premier a cui qualche segnale era pervenuto, dall’alto del suo osservatorio, tranquillizzava il “popolo”, scettico e sospettoso. Nei suoi messaggi ammetteva che qualche difficoltà ci sarebbe stata ma il vantaggio per il Paese sarebbe stato è enorme perché tutta l’Europa, con 300 milioni di persone avrebbe avuto la stessa moneta e tutti avremmo potuto operare senza incontrare difficoltà di cambio. Gi scambi e le esportazioni sarebbero aumentate e poi, avremmo avuto una moneta forte che avrebbe eliminato i rischi di inflazione. Ciampi, Prodi o D’Alema non avrebbero potuto fare un discorso migliore.

Negli ottimistici discorsi interviene anche il ministro dell’Economia Giulio Tremonti che assicura, anche lui dal suo osservatorio, che i prezzi al consumo non sarebbero aumentati.

E così, sorprendentemente, da un giorno all’altro, la famosa casalinga di Voghera, e non solo, si trovò a far la spesa pagando un euro ciò che fino ad allora aveva pagato mille lire. Non fu un fenomeno isolato e di breve durata, fu un fenomeno speculativo spontaneo e diffuso che, avrebbe dovuto essere previsto e quindi controllato fin dall’inizio. E, in vece, malauguratamente, non lo fu; e ne fu anche negata, colpevolmente, l’esistenza. In definitiva, le condizioni traumatiche affrontate dai cittadini nel passaggio alla nuova moneta, non furono assolutamente percepite, nei fatti, dalla classe politica, soprattutto quella al Governo, forse impreparata o distratta da altre faccende.

Questo fenomeno influenzò negativamente, non solo il periodo di transizione, ma innescò, per gli anni successivi, un diffuso impoverimento con l’allargamento della forcella tra i più deboli e meno abbienti e gli speculatori per cui l’Euro si era rivelato come una manna caduta dal cielo. Tutto questo gettò una ondata di discredito sull’ operazione Euro e, per lunghi anni, è stato strumentalmente utilizzato, in Italia, come una nefanda conseguenza di sperequazioni e privilegi maturati nella CE ai danni dell’Italia. Possiamo dire che non c’è nulla di più ipocrita e più falso. Si è vero, come vedremo in seguito, la UE ha avuto le sue “magagne” scoperte durante e dopo la epocale crisi della Grecia; ma il Governo italiano si è dimostrato, nei fatti impreparato o “distratto”, come già scritto.

 

Euroconvertitore

L'Euroconvertitore donato alle massaie e a chi aveva difficoltà col cambio, dal governo Berlusconi, insieme alla raccomandazione di non fermarsi al primo negozio, ma camminare fino a trovare il prezzo giusto. A parte ciò, “va tutto bene: I ristoranti sono pieni “. Ricordate?

 

Zona Euro. Non solo vantaggi o svantaggi ma anche vizi occulti

Guardando a ritroso, si può fare la cronistoria degli avvenimenti geopolitici, delle reazioni e iniziative nella “Zona Euro” regolate dai “trattati” e che, indubbiamente, hanno inciso sulla vita dei cittadini europei del trascorso ventennio. E’ facile immaginare come sarebbe andata senza l’Euro. Tuttavia, l’esercizio di interrogarsi sui vantaggi e gli svantaggi della Moneta Unica continua, soprattutto tra economisti, politici, storici, antropologi, filosofi, ecc. senza raggiungere chiare e inconfutabili conclusioni. Beh, soprattutto perché molti sono i vizi d’origine, le mistificazioni e i vizi ancora oggi occulti, intuibili ma non rivelati, e molti sono gli interessi contrapposti che nulla hanno a che fare con l’ipocrita, sempre invocata, improrogabile esigenza di integrazione, conforme allo storico e immutato progetto originale dell’Europa. Noi cittadini, nonostante i benefici, forse troppo propagandati, senza tante elucubrazioni che lasciamo agli esperti che son sempre tanti e in disaccordo, possiamo giudicare guardando a come abbiamo vissuto in questi vent’anni e come abbiamo vissuto la nostra vita, nel bene e nel male. Il male ed i guasti di questi ultimi vent’anni sono sotto gli occhi di tutti: ambiente, lavoro (meglio dire disoccupazione), istruzione inadeguata, squalifica della politica, estremismi nazionalisti o sovranisti, e chi più ne ha più ne metta. A tutto questo aggiungiamo, come tocco finale del “capolavoro”, la teutonica rigidità e l’esagerata austerità imposta dai burocrati di Bruxelles in ottemperanza a parametri e direttive poco realistiche.  In questi 20 anni avremmo potuto fare molto di più e correggere, quei vizi di cui sopra, man mano che emergevano. E, invece, si è fatto finta che non esistevano. Ci sono dei “nodi che devono necessariamente venire al pettine”. Certamente, considerando il punto in cui siamo, sarebbe da stolti abbandonare l’Euro senza aver prima provato cosa significherebbe portare, coraggiosamente, a compimento l’integrazione. E ciò mettendo a frutto le esperienze più negative che positive in materia di ambiente, energia, difesa, occupazione e subordinazione alla finanza “libera” internazionale. Naturalmente passando attraverso una integrazione politica e fiscale tutta “europea” e non condizionata dai singoli interessi nazionalistici.

Ora, o mai più! I tempi sono maturi e le crisi economiche, la pandemia e l’invasione dell’Ucraina dovrebbero averci insegnato qualcosa! Ora, o mai più! Potremmo anche terminare qui: dopo 20 anni, gli italiani sono più poveri, il debito pubblico, alimentato dalla straordinaria “contingente” flessibilità di quelle stesse istituzioni che ci avevano dissanguato all’epoca del governo Monti (e che prima o poi, come vedremo, ci ricorderanno che i debiti vanno pagati). Un significativo ulteriore dettaglio è dato dalle stime condivise dagli autori del Global Wealth Report 2018 di Credit Suisse, rielaborazione Oxfam: “Nei 19 anni intercorsi tra l’inizio del nuovo millennio e il primo semestre del 2018, le quote di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco dei nostri connazionali e dalla metà più povera della popolazione italiana hanno mostrato un andamento divergente. La quota di ricchezza detenuta dal top10%, in risalita dal 2009, si è attestata a fine giugno 2018 al 56,13% (contro il 50,57% del 2000), mentre la quota della metà più povera degli italiani è lentamente e costantemente scesa, passando dal 13,1% di inizio millennio ad appena il 7,85% a metà 2018”. Chiaro no?

La qualità della vita anche prima del Covid, l’aumento delle diseguaglianze, rappresentano già una prima risposta sulla Moneta Unica che ha caratterizzato questi nostri 20 anni. Ulteriori vantaggi e svantaggi sono facilmente riscontrabili con evidenze paradossalmente divergenti. Tuttavia conto di non riportarle tutte per necessità di spazio. Un consuntivo avrebbe potuto giungerci dall’Eurogruppo nel comunicato della celebrazione del ventennale dell’Euro. Ma non è stato così.

 

La patetica e deludente celebrazione dei 20 anni dell’Euro in un Comunicato stampa dell’Eurogruppo del 31 dicembre 202

L'Eurogruppo è il centro di coordinamento europeo che riunisce i Ministri delle finanze dei 19 Stati membri che adottano l'Euro e costituiscono la cosiddetta   Eurozona. Ebbene, alla fine del 2021, l’Eurogruppo ha diffuso un comunicato commemorativo dell’istituzione dell’Euro, stilato a ben 19 mani, che ho deciso, forse con troppa presunzione, di non divulgare, per il suo contenuto estremamente retorico, ipocrita e autoreferenziale. Un comunicato in cui non si individuano gli errori commessi, le negative ricadute sugli europei e quindi non c’è alcun accenno ai rimedi da apportare a strutture, regolamenti e trattati. Solo retorica e buone intenzioni. Si parla di un radioso futuro in cui emerge l’impegno per rafforzare ulteriormente la Zona Euro. “[…] Abbiamo gettato solide basi per il sistema bancario europeo, ma dobbiamo lavorare ancora per rafforzare l'unione bancaria e per sbloccare nuove opportunità di ripresa economica e di crescita […]”  Come vedete, le banche innanzi tutto. Non un accenno alla reale volontà di “rispolverare” la già pronta, ma dormiente Costituzione Europea, a suo tempo bloccata dalla Francia, e nessuna idea concreta per i vitali “tasselli” che mancano, fin dalle origini, per la integrazione politica, fiscale, ecc. D’altronde cosa si può pretendere da loro’: in fondo si tratta solo di ministri delle finanze. Ma, comunque, sono loro quelli che contano; siamo “nelle loro mani!

 

La scoperta degli altarini

Mentre li lasciamo nella apparente convinzione che andava tutto bene (almeno fino al 31.12.2021) andiamo a scoprire un po’ di altarini su cui sono stati sacrificati, in maniera epocale la Grecia e poi, in misura minore, il Portogallo e l’Irlanda. Ma anche l’Italia, nel 2011, dovette affrontare pesanti restrizioni quando, dopo le dimissioni di Berlusconi subentrò il governo tecnico guidato da Mario Monti, con l’obiettivo di far uscire l’Italia dall’emergenza. In questo contesto, venne firmato il Fiscal Compact, che comportava la cessione di una fetta della propria sovranità economica all’Ue in modo da stabilire vincoli economici e fiscali comuni. Prima del Fiscal Compact avevano avuto una funzione simile il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità e crescita. Era la stagione in cui Mario Draghi pronunciò la famosa frase «Whatever it takes», riferendosi alla necessità di salvare l’Euro: “faremo qualunque cosa sia utile per raggiungere l’obiettivo”. In Italia, nel frattempo, era stata avviata, in sordina, in piena crisi del governo Berlusconi, l’iter per la modifica dell’art.81, 97, 117 e 119 della Costituzione per introdurre il principio del pareggio di bilancio nella Carta Costituzionale. Trasformata in legge nel 2012, le modifiche sono state applicate a partire dall’esercizio finanziario dell’anno 2014. Pur di salvare l’Euro(!) l’Italia intaccò una peculiarità della sua Carta, avventatamente, e senza adeguate contropartite in seno alla UE. E oggi ne paghiamo ancora le conseguenze. Ma il Fiscal Compact fu contemporaneamente “imposto” a tutta la Zona Euro, non solo all’Italia. Che consolazione!

La crisi economica globale del 2007-08 e la cosiddetta crisi Greca hanno, purtroppo, rappresentato agli occhi di chi ha voluto vedere, l’occasione per scoprire oltre ai pregi, soprattutto i vizi ed i difetti dell’Unione Monetaria così com’era stata realizzata.

(Nel riportare alcuni dettagli significativi, mi sono avvalso della lettura di saggi prodotti da Mimesis edizioni, T. Fazi, Andrea Zhok, A. Evans-Pritchard di eunews-oneeuro, notizie di stampa italiana). Ai tre Paesi citati fu permesso di prendere in prestito oltre il 2% della loro quota allocata (più di tre volte il limite normale) pari all’80% di tutti i prestiti del Fondo Monetario Internazionale, tra il 2011 ed il 2015. Quindi, non solo UE, di matrice tedesca (W. Schäuble 1984-2017) ma anche FMI, di matrice francese (C. Lagarde) e U. E: si tratta della cosiddetta Troika, il mostro a tre teste che da allora cominciò ad incidere pesantemente sui paesi dell’Unione.

Proseguiamo con ordine. 

Un dettagliato rapporto dell’I. E. O. “Independent Evaluation Office”, all’interno dello stesso FMI, ha emanato un verdetto severissimo contro le più alte cariche del Fondo. che hanno ingannato il proprio board, fatto una serie di clamorosi errori di giudizio sulla Grecia, sposato incondizionatamente la causa dell’Euro, ignorato tutte le avvisaglie di un’imminente crisi e trascurato un aspetto di base delle unioni monetarie. Il rapporto parla della disastrosa gestione della crisi dell’Euro da parte del Fondo e rivela una «cultura della compiacenza», incline all’analisi «superficiale e meccanicista», e un sistema di governance apparentemente fuori controllo. Ma cosa c’entra questo con la UE? C’entra perché, tra mistificazioni e necessità di coprire un operato “discutibile”, a dir poco incoerente e scorretto, qualcuno, alla UE, avendone il “potere” ha utilizzato il Fondo per salvare la propria unione monetaria ed il proprio sistema bancario. Per chi era distratto allora o per chi, ancora oggi non lo sa, grazie ai media che filtrano le notizie attraverso le solite ideologie divergenti o, addirittura, troppo spesso semplicemente disinformati, in quegli anni, la Zona Euro stava vivendo una crisi “sistemica”.


I grilli parlanti ovviamente inascoltati.

I grilli parlanti, all’interno del FMI, avevano avvertito che il progetto dell’Euro presentava delle falle fondamentali, ma sono stati ignorati. Dopo un intenso dibattito interno, era prevalsa una posizione favorevole a quello che veniva venduto e percepito come il progetto politico dell’Europa (!). Per ovvii motivi non posso dilungarmi troppo nei dettagli ma cercherò di evidenziare, in sintesi, gli avvenimenti principali che sono stati la “cartina di tornasole” della Moneta Unica.

Non esistevano piani di riserva su come affrontare una crisi sistemica nella Zona Euro, o su come gestire la politica di un’unione monetaria multinazionale, perché era stato escluso a priori che ciò potesse accadere. L’FMI ha persistentemente minimizzato i rischi rappresentati dai crescenti deficit delle partite correnti e dal deflusso di capitali verso la periferia della Zona Euro, e ha trascurato il pericolo di un “arresto improvviso” di tali flussi.

In pratica, l’eventualità di una crisi da bilancia dei pagamenti in un’unione monetaria era considerata praticamente inesistente. A metà del 2007, l’FMI pensava ancora che in vista dell’adesione della Grecia all’unione monetaria, la capacità di reperire finanziamenti esteri non fosse un problema. “Alla radice del problema vi era l’incapacità di capire che un’unione monetaria senza Tesoro o unione politica è intrinsecamente vulnerabile alle crisi del debito. In caso di shock, gli Stati non hanno più gli strumenti sovrani per difendersi. Il rischio di bancarotta si sostituisce al rischio di svalutazione (cfr. Ambrose Evans-Pritchard ) «In un’unione monetaria, in cui i paesi rinunciano ad una politica monetaria indipendente e alla variabile del tasso di cambio, le dinamiche del debito cambiano», nota il rapporto I. E.O. Questi problemi vengono poi amplificati dall’esistenza di un «circolo vizioso tra banche e governi». Il fatto che l’FMI non sia riuscito ad anticipare nulla di tutto ciò è una grave colpa scientifica e professionale. In Grecia, il Fondo monetario internazionale ha violato uno dei suoi princìpi cardine, sottoscrivendo il primo bailout (salvataggio) del paese, nel 2010, pur sapendo di non poter offrire alcuna garanzia sul fatto che il pacchetto avrebbe portato i debiti del paese sotto controllo o messo il paese sulla via della ripresa, ed erano molti a sospettare che il piano fosse condannato al fallimento fin dall’inizio. L’ FMI ha aggirato questa regola riscrivendo radicalmente la propria politica in materia di salvataggi, per consentire una deroga (da allora abolita) in caso di rischio di contagio sistemico. «Il board non è stato consultato o informato», sostiene il rapporto. I direttori hanno scoperto la bomba «nascosta nel testo» del pacchetto greco, ma a quel punto era troppo tardi. Ma quali erano le cifre? La Grecia si trova schiacciata da un debito di 350 miliardi di euro (debito accumulato con l’ottenimento di facili e spregiudicati finanziamenti). Si inizia a parlare, su più fronti, di uscita dalla Zona Euro. Atene chiede un piano di aiuti internazionali, che le viene accordato: non era mai accaduto prima a un paese dell’Eurozona. Evidentemente l’euforia dell’Euro ha stravolto ogni criterio di prudenza e tutela. L’Europa e il Fondo Monetario Internazionale concedono tre “bailout”: 110 miliardi di euro , nel 2010;130 miliardi nel 2011-2012 e un’iniezione di altri 86 miliardi di euro, che fa lievitare il totale fino a 326 miliardi: la più grande operazione di salvataggio di sempre. Non sto a raccontare la lista delle condizioni restrittive e le contropartite sempre più dure inflitte alla popolazione.

Quando è stato trascinato nella crisi greca, l’FMI si trovava in una situazione poco invidiabile. La crisi dei mutui subprime era ancora fresca nella memoria di tutti. «Sono state espresse preoccupazioni in merito al fatto che un tale credit event potesse diffondersi ad altri membri della Zona Euro e, più in generale, al resto della fragile economia globale». La Zona Euro non aveva alcuna difesa contro un eventuale contagio e le sue banche già vacillavano. La Banca Centrale Europea non aveva ancora assunto il ruolo di prestatore di ultima istanza. Una ristrutturazione del debito greco veniva ritenuta troppo rischiosa. Anche se le azioni del Fondo potevano apparire giustificabili nel pieno della crisi, la dura verità è che la Grecia è stata sacrificata per salvare l’Euro e le banche del Nord Europa. La Grecia ha dovuto sopportare una terapia shock a base di austerità senza le tradizionali compensazioni prescritte dell’FMI: un taglio del debito e una svalutazione competitiva. Un altro rapporto sulla saga greca spiega che il paese è stato costretto ad una stretta fiscale violentissima, pari all’11% del PIL nei primi tre anni. Più la situazione peggiorava, più il paese era costretto a tagliare, in quello che l’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis ha definito “waterboarding fiscale”. L’ingiustizia è che il costo dei salvataggi è stato pagato di comuni cittadini greci, mentre non si è voluto ammettere che il vero motivo della politica della Troika (FMI, BCE, CE) era quello di salvare l’unione monetaria.

Per aggiungere la beffa al danno, i greci sono anche stati ripetutamente accusati di essere i colpevoli della loro disgrazia. Questa ingiustizia – la radice di tanta amarezza in Grecia – è stata finalmente riconosciuta. «Se la preoccupazione principale era quella di evitare il contagio internazionale, allora la comunità internazionale avrebbe dovuto prendere in carico almeno una parte del costo di tale prevenzione», conclude il rapporto.

                                                                                                       Christine Lagarde

Mea culpa?

L’ammissione del FMI: la Grecia è stata sacrificata per salvare l’euro:

Ambrose Evans-Pritchard] di Redazione@eunewsit 29 Luglio 2016


Non finisce qui

Qualcuno si potrebbe chiedere come mai le banche francesi e tedesche detenessero così tanti titoli di Stato greci (119 miliardi, a fronte, per dire, dei 4 miliardi delle banche italiane). Le ragioni non sono trasparenti, ma possono solo essere dedotte. Verso la metà degli anni novanta l’idea che una valuta comune europea divenisse realtà in tempi finanziariamente prossimi cominciò a diffondersi. Alcune banche private, curiosamente proprio quelle dei paesi politicamente decisivi per l’ammissione all’Euro, Francia e Germania, ritennero di avere elementi sufficienti per scommettere sulla costituzione dell’Euro (e sull’inclusione della Grecia). Questo li indusse a scommettere massicciamente su questa opzione, acquistando titoli di Stato greci, a buon prezzo ed alta rendita. La scommessa fu fruttuosa: nonostante i dubbi sullo Stato delle finanze greche, la Grecia in ultima istanza venne ammessa nell’eurozona, portando a un crollo dei tassi di interesse sulle nuove emissioni (dal 20% ad inizio anni novanta al 3% nel 2002). Le banche che così avevano scommesso ne trassero ampi profitti. Peraltro, come ricordato, l’acquisto di titoli proseguì anche dopo aver saputo (2004) dei camuffamenti contabili che avevano consentito di entrare nell’Euro.

Ma quali che siano le origini di quell’esposizione bancaria, il nocciolo della questione era chiara: un default con taglio del debito a inizio 2010 non era un’opzione politicamente percorribile perché avrebbe messo a rischio le banche francesi e tedesche e attraverso di esse, con il meccanismo del contagio finanziario, forse l’intero sistema finanziario europeo. Perciò, scrive il report dell’FMI: «Una ristrutturazione immediata del debito sarebbe stata meglio per la Grecia, ma non era accettabile per i partner europei (quali?) Una ristrutturazione ritardata forniva una finestra affinché i creditori privati riducessero la loro esposizione, spostando il debito in mani pubbliche».

In quell’epoca circolò una narrazione (ricordate i nostri talk show?) che enfatizzava il fatto che una Nazione, la Grecia, venisse “salvata” da altre Nazioni (Germania, la Francia, l’Italia, la Spagna, ecc.), unite dagli oneri e onori dei trattati europei. Quest’interpretazione fu una distorsione consapevole, che ha aperto una pericolosa deriva nelle letture date da ciascun Paese agli eventi sullo scenario europeo. Come abbiamo visto, creditori internazionali, che poi erano essenzialmente europei, hanno adottato, di fronte alla crisi finanziaria greca, una strategia con tre obiettivi primari. In primo luogo è stata adottata per due anni la strategia del prestito internazionale (bailout), e non del taglio del debito (haircut), per dare il tempo alle banche private coinvolte (principalmente francesi e tedesche) di alleggerire la propria esposizione, trasferendone gli oneri sui bilanci pubblici dei paesi prestatori. In secondo luogo, si è agito così per dare tempo alla BCE di mettere in piedi lo European Stability Mechanism (ESM), meglio noto come “fondo salva-Stati”, in modo da porre una toppa alla follia di aver creato un’Europa unita sul piano finanziario e disunita su quello politico: l’ESM appare come un tardivo e parziale passo verso l’assoggettamento delle finanze UE a decisioni politiche (secondo il vago modello della Federal Reserve americana). In terzo luogo, si è messa in campo una strategia politica, in linea con il pensiero economico dominante in Europa da una quindicina d’anni a questa parte, secondo cui è necessario promuovere il dimagrimento delle strutture statali e l’ampliamento del ruolo del settore privato nell’industria e nei servizi. I modi del processo di “salvataggio” avviato a inizio 2010 sono perfettamente intelligibili se li si legge attraverso il convergere di queste tre istanze, mentre l’intero processo è del tutto incomprensibile se davvero la “salvezza” della Grecia come nazione e come popolo fosse stata al centro dell’iniziativa.


L’ultimo altarino da scoprire

Abbiamo visto che le rigide misure imposte dalla Troika hanno colpito direttamente i cittadini, con un articolata austerità e tagli di spesa, senza nessuna concreta imposizione o raccomandazione di mettere in ordine i sistemi fiscali dei singoli paesi. Come mai?

                                                                                                                         Juncker pizzicato ancora una volta alquanto
                      ubriaco

https://www.ilprimatonazionale.it/esteri

E qui emerge un’altra personalità: il lussemburghese Jean-Claude Juncker spesso irriverentemente inquadrato dalle telecamere in momenti poco opportuni. Personaggio di grande notorietà, presidente della Commissione Europea dal 2014 al 2019, primo ministro del Lussemburgo dal 20 gennaio 1995 al 10 luglio 2013 e presidente dell'Eurogruppo dal 2005 al gennaio 2013. E qui, considerata la delicatezza dell’argomento, sono costretto a riportare integralmente quanto scrive Andrea Zhok di eunewsit sulla controstoria della crisi greca:” […] Jean-Claude Juncker, che ha coperto 548 accordi segreti con aziende multinazionali in Lussemburgo, in regime di agevolazione fiscale estrema (tassazione a meno dell’1%), potrebbero mai fare la voce grossa per ottenere trasparenza fiscale in Grecia? Il problema, naturalmente, è che mentre si possono colpire i lavoratori greci senza necessariamente toccare quelli lussemburghesi o italiani, è impossibile affrontare l’evasione ed elusione fiscale greca (o italiana) senza mettere sul piatto la sorveglianza internazionale sui movimenti di capitale (inclusa la gaia movimentazione finanziaria delle lobby vicine a Juncker in Lussemburgo, a Lagarde in Francia, ecc.), sorveglianza che nessuno degli oligarchi europei vuole […]”

Di passaggio: qualcuno forse ricorderà ancora le parole dell’allora primo ministro Mario Monti, nel novembre del 2012, quando menzionò l’opportunità di una tassa patrimoniale per affrontare la grave crisi italiana. Dopo un breve soprassalto di entusiasmo nelle fila della Sinistra, il tema venne però rinviato ad un futuro indefinito, in quanto, si disse, «purtroppo, in Italia non abbiamo ancora una vera anagrafe patrimoniale», cui però, si garantiva, «il governo sta lavorando» (??). Traduzione per i non addetti ai lavori: «Sarebbe bello e giusto far pagare la crisi anche ai grandi e grandissimi patrimoni, ma purtroppo, diversamente dal bilocale di Beppe il calzolaio, quei patrimoni sono in gran parte invisibili al fisco, e, per di più, trattandosi di patrimoni liquidi, possono essere trasferiti in un batter d’occhio. E siccome non vogliamo fare fuggire i capitali (vero?), allora non ci resta che randellare il bilocale di Beppe».

Così, nel corso della crisi finanziaria, in Grecia e altrove, il “grande capitale” transnazionale ha manifestato i suoi rapporti nei confronti degli Stati democratici in tre forme: 1) trasferendo i propri debiti sugli erari pubblici in occasione di crisi degli istituti di credito (ricapitalizzazioni e salvataggi bancari); 2) sottraendosi ad un’equa tassazione, col ricatto agli Stati per ottenere condizioni fiscali di favore; 3) esercitando il proprio potere contrattuale (la minaccia di trasferirsi) per comprimere i diritti del lavoro. In questo quadro, a fronte delle richieste moraleggianti alla popolazione greca, o italiana, spagnola, ecc. di «far fronte ai propri debiti», credo esista un’unica risposta moralmente giusta. Fino a quando l’Unione europea non porrà termine alla capacità di capitali e aziende transnazionali di sottrarsi ad un’equa tassazione e di ricattare gli Stati, chiedere ai cittadini europei di onorare i propri debiti pubblici è semplicemente una richiesta indecente.

Così, se cambiamo un po’ la prospettiva, e non ci lasciamo ipnotizzare dalle linee di distinzione nazionali, vediamo come le varie lezioni sull’immoralità del debito, la salubrità del rigore, e la necessità di evitare l’azzardo morale siano sfacciate distorsioni della realtà. Nessuna lezione morale o economica viene mai impartita da questo tipo di interventi, per il semplice motivo che essi non colpiscono chi ha prodotto il danno, che può serenamente riprovarci la prossima volta. Anzi, imporre politiche restrittive ai popoli (la specialità della casa dell’FMI) è un modo raffinato per garantire l’immunità da spiacevoli conseguenze alle oligarchie, che grazie alle caratteristiche peculiari della ricchezza finanziaria moderna non sono vincolati alle sorti di un territorio e della sua gente. Per dirla in modo semplice: in tutto il mondo, durante la crisi (innescata dalla frenetica ricerca di profitto finanziario), chi vive del proprio lavoro ha pagato il conto lasciato sulla tavola da chi vive prestando il proprio denaro. E il tutto all’insegna dell’imperativo morale che “bisogna pagare i propri debiti”.


Conclusioni

Riassumendo, la vicenda greca rappresenta, insieme alla crisi finanziaria globale, il test di collaudo, finito disastrosamente, dell’Unione europea come Unione monetaria. Si è costruito un modello europeo incentrato sulla sola stabilità della moneta e sulla saldezza degli ordinamenti finanziari, lasciando in tutti gli altri ambiti i paesi europei a competere su base nazionale. La responsabilità per l’adozione di questo modello ricade, a pari “merito”, sulle classi dirigenti tedesche, che hanno imposto una BCE come alter ego della Bundesbank, non meno che sulle classi dirigenti francesi, che hanno ostacolato in tutti i modi ogni progetto di devoluzione dei poteri nazionali al Parlamento europeo. Il risultato è stato un’organizzazione sovranazionale forte con i deboli e debole con i forti, dove l’Europa ha presentato ai propri cittadini il solo volto di tutore del rigore finanziario, senza uno straccio di politica industriale o sociale comune, e senza mostrarsi in grado di difendere né lo stato sociale europeo, né la cultura europea.

Nella fattispecie greca, il fallimento politico europeo può essere sintetizzato in cinque passi: le istituzioni europee 1) dapprima hanno mancato di esercitare i dovuti controlli per l’ammissione della Grecia nell’unione monetaria; 2) poi hanno consentito la speculazione delle banche private internazionali senza un’adeguata regolamentazione finanziaria; 3) in seguito sono intervenute per salvare quelle stesse banche a scapito dei debiti pubblici; 4) indi hanno esercitato sotto il nome di “riforme” una sorta di attività di strozzinaggio internazionale, senza mettere in campo nessun intervento anticiclico; 5) e infine alla prima seria difficoltà hanno rivelato la priorità di uno spirito competitivo tra opportunisti economici (e non collaborativo tra soggetti politici) giungendo ad una sconcertante esibizione finale di egoismi nazionali (il caso della distribuzione dei migranti ne è un sintomo palese).

Posiamo augurarci che, ora, alla luce dei nuovi tragici eventi della anacronistica invasione dell’Ucraina, da parte della Russia di Putin, la Commissione Europea, alla luce delle esperienze passate e presenti, riesca a trovare quella coesione tanto necessaria per la realizzazione di quella unione tanto auspicata e, colpevolmente, mai realizzata.  Impareremo mai le lezioni della Storia?

 

Ravenna, 26 giugno 2022

Tobia Costagliola

 

 

 Immagine del comandante Tobia Costagliola

                                         

 Tobia Costagliola


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IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO A CENTO ANNI DALLA SUA FONDAZIONE


Francobollo commemorativo
                  della nascita del PCI
Francobollo commemorativo della nascita del PCI ( si fa per dire)  espressione dell’ignoranza della nostra storia recente


La vignetta riproduce una foto d’epoca, custodita nella Biblioteca Labronica Francesco Domenico Guerrazzi di Livorno, raffigurante la facciata del teatro Carlo Goldoni di Livorno dove si svolse nel gennaio del 1921 il XVII Congresso del Partito Socialista Italiano che diede vita alla storica scissione che portò il 21 gennaio 1921 alla fondazione del Partito Comunista d’Italia.

Completano il francobollo la leggenda “21 – 1 – 1921 CONGRESSO DI LIVORNO” la scritta “ITALIA” e l’indicazione tariffaria “B”.

Non so come siano andate le cose. A me è sembrato che L’I.P.Z.S. stava per emettere questo francobollo per celebrare la nascita del Partito Comunista. Come si vede non c’è alcun riferimento al PCI. Evidentemente, quando se ne sono accorti hanno finito per commemorare, come è evidente, il Congresso Socialista. Qualcuno che “masticava” un po’ di Storia, alle poste ha poi inquadrato in un ottica più corretta. Il risultato è che i filatelici ancora attendono il francobollo commemorativo della fondazione del PCd’I (e non PCI)…. Troppo pignolo eh?   (TC)

Il Partito Comunista Italiano a cento anni dalla sua fondazione
di Tobia Costagliola


Non è questa, certamente, la sede più idonea a delineare le origini e la storia del partito Comunista a 100 anni dalla sua fondazione. E’ comunque doveroso ricordare che, il 21 gennaio del 1821, avvenne, a Livorno, la “Madre di tutte le scissioni”: durante i lavori del XVII congresso del Partito Socialista Italiano, Bordiga, Togliatti, Terracini e Gramsci, gli esponenti più in vista della “Corrente di Sinistra” del PSI , abbandonarono, clamorosamente, l’assise socialista. Uscendo dal teatro Goldoni, il gruppo di dissidenti attraversò Livorno, al canto dell’Internazionale Socialista, raggiungendo il teatro San Marco dove nacque il Congresso di Costituzione del Partito Comunista d’Italia (PCd’I), sezione italiana dell’Internazionale Comunista. Le notizie e i fatti sinteticamente qui riportati le ho liberamente attinte prevalentemente dall’Enciclopedia Treccani evitando di riportare dichiarazioni e commenti di parte. Devo, tuttavia, esprimere tutta la mia sorpresa per aver constatato attraverso il mio improvvisato e veloce excursus storico, come, dopo circa 70 anni, le cronache e la narrazione dei fatti accaduti, pur restando immutate nella loro rappresentazione grafica ed editoriale, possano rivelare verità nascoste o prestarsi ad interpretazioni completamente diverse rispetto a quei contenuti archiviati nella memoria individuale e collettiva. E allora appare chiaramente che non tutto ciò che era stato archiviato sotto il colore rosso, nero o bianco fosse realmente tale e che l’essenza delle cose appariva nelle sovrapposizioni di colori, nelle sfumature e, soprattutto nella luce perfetta, senza ombre indispensabile ad una perfetta lettura…


La sede del Congresso Gramsci al centro con Bordiga e altri
                            dirigenti 
La sede del Congresso Gramsci al centro con Bordiga e altri dirigenti

     

Gramsci e Bordiga

Gramsci e Bordiga

Il nuovo partito nacque, ovviamente, in polemica col PSI e per dare una impronta più rivoluzionaria al fermento del movimento operaio dovuto alla grave crisi manifestatasi all’indomani della fine della Grande Guerra.
Ispirato dall’evoluzione della rivoluzione russa, Gramsci, soprattutto, fu il protagonista della “bolscevizzazione” del partito e del suo inserimento nella società, avviando un nuovo corso con l’ammissione anche delle opposizioni di destra. Dopo l’arresto di Gramsci e le “Leggi speciali” del 1926, i militanti del partito si divisero tra clandestinità ed esilio, soprattutto in Francia, dove il PCd'I fu presente nella concentrazione antifascista (strinse nel 1934 un patto di unità d'azione con il PSI, mantenuto fino al 1956).
Nel 1927, la direzione del partito si trasferì a Mosca dove, inevitabilmente, subì la pesante influenza del Partito Comunista dell’URSS (PCUS.). A Mosca cominciò a formarsi il nuovo gruppo dirigente, intorno alla persona di Palmiro Togliatti, mentre ogni attività di contrasto al Fascismo si svolgeva nella clandestinità, tenendo comunque viva la fiamma rivoluzionaria.

Il Nuovo partito ed il CLN (Comitato di liberazione nazionale)
Nel 1943, in concomitanza dei rovesci militari dell’Italia in guerra, con lo scioglimento dell’Internazionale Comunista, fu dato al partito il nuovo nome di Partito Comunista Italiano (PCI). Il 9 settembre del ’43 nacque il Comitato di Liberazione Nazionale, organizzazione politica e militare italiana costituita dai rappresentanti dei vari partiti e movimenti del Paese, allo scopo di opporsi al fascismo e all’occupazione nazista. Per la sua lunga permanenza in Russia, Togliatti fu in gran parte anche testimone (ma non necessariamente complice) di tutti gli eccidi, stermini ed oppressione del PCUS e di tutti i regimi comunisti allora esistenti. Fu proprio in quel periodo che maturò la strategia politica da applicare per l’Italia ancor prima della devastante Guerra.
Nella notte fra il 3 e il 4 marzo 1944, in un incontro segreto con Stalin, Togliatti. fu informato della decisone sovietica di riconoscere il governo Badoglio, la sua strategia venne accolta da Stalin e la sua richiesta di essere inviato in Italia fu esaudita. Rientrato a Napoli, i primi di aprile espose pubblicamente il suo programma (la cosiddetta “svolta di Salerno”) Il 24 aprile 1944, a Salerno, proprio su pressione del leader comunista Palmiro Togliatti, i rappresentanti dei partiti antifascisti entrarono a far parte di un governo di unità nazionale presieduto sempre da Pietro Badoglio, accettando così di collaborare, se pure con riluttanza, con un personaggio che ritenevano corresponsabile della tragedia che stava vivendo il Paese. La motivazione stava nel fatto che, nell’emergenza della lotta antinazista, era conveniente collaborare con chiunque in quel momento fosse contro gli occupatori tedeschi. Questa scelta, pur osteggiata da molti antifascisti, in particolare dal Partito d’Azione e dai socialisti, fu chiamata “svolta di Salerno” e prevedeva l'accantonamento della questione istituzionale, da risolvere con referendum alla fine della guerra, e la formazione di un secondo governo Badoglio con la partecipazione dei partiti antifascisti.

Il PCI diventa partito di governo ispirato dalla riconciliazione nazionale
Il programma di Togliatti venne accolto anche dagli altri partiti antifascisti, mutando il precedente indirizzo del Comitato di Liberazione Nazionale. I partiti furono: Partito d’Azione, Democrazia cristiana Partito Comunista Italiano, Partito Socialista Italiano, Partito Democratico del Lavoro, Partito Liberale Italiano. Le ideologie in comune furono: Antifascismo, Patriottismo, Repubblicanesimo (maggioranza), Monarchismo (sostenuto solo dal PLI e in parte dalla DC). Già in quell’epoca si ufficializzarono le prime correnti interne (definite sale della democrazia): Liberalismo, Radicalismo, Cristianesimo Sociale, Socialdemocrazia, Socialismo, Comunismo. (Schieramento a partire dal centro destra fino all’estrema sinistra).
Così, dopo la lotta armata, con Togliatti, in condizioni completamente nuove ed insperate, il PCI torna sulla scena politica nazionale. Ovviamente, acquisì un ruolo dirigente nella lotta armata contro i nazifascisti e un posto di rilievo nel Comitato di Liberazione Nazionale.
Durante il periodo moscovita Togliatti aveva avuto modo di confrontarsi con la dirigenza del PCUS e maturò le idee guida che la trasformazione socialista dell’Italia non dovesse più avvenire per via rivoluzionaria, come accaduto in Unione Sovietica, bensì attraverso la progressiva ascesa delle masse popolari al governo della cosa pubblica.
E così, paradosso tra i paradossi, se pur tra tante opposizioni, Togliatti, avendo solo in mente la necessità e l’urgenza di unità nazionale, entrò a far parte come Ministro senza portafoglio nel governo Badoglio e nel successivo governo Bonomi. Dopo la Liberazione, assunse il dicastero della Giustizia nel governo Parri e lo mantenne nel primo governo De Gasperi. In tale veste promosse una amnistia che comprendeva anche reati politici commessi durante il fascismo con l'obiettivo di favorire la riconciliazione nazionale e allargare il consenso alla costruzione della democrazia. Ma il suo impegno principale fu quello di trasformare il PCI in un partito di massa ideologicamente pluralistico (il "partito nuovo"), che costituì una novità assoluta nel movimento comunista e una leva per caratterizzare la nuova democrazia italiana come una "democrazia di partiti", basata sulla partecipazione diffusa e sulla mobilitazione dei cittadini. A questa visione corrispondeva il progetto di una "democrazia progressiva", cioè di uno Stato democratico avanzato basato sul riconoscimento non solo delle libertà e dei diritti politici, ma anche dei diritti sociali, della proprietà pubblica e cooperativa accanto alla proprietà privata, e della programmazione economica. Una democrazia liberale molto diversa da quella prefascista, aperta a trasformazioni di contenuto socialista (le "riforme di struttura") e alla possibilità che la classe operaia, mostratasi la più aderente all'interesse nazionale nella lotta al fascismo e nella guerra di liberazione, si affermasse come classe dirigente del paese. I contenuti programmatici della "democrazia progressiva" erano condivisi dai principali partiti antifascisti e furono recepiti dalla Costituzione del 1948 che Togliatti. considerò, quindi, il "programma fondamentale" del PCI. Come statista il suo principale contributo si esplicò nell'Assemblea Costituente, dove il voto del PCI fu determinante per la costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi e del Concordato (!)

La fine della collaborazione antifascista. Nuova frattura col PSI
La strategia togliattiana si basava sull'ipotesi che le "sfere di influenza" in cui il mondo si era diviso alla fine della seconda guerra mondiale non si trasformassero in "campi" contrapposti. Il rapido passaggio alla "guerra fredda" creò quindi un'asimmetria che il PCI non avrebbe mai potuto sormontare: la fine della coalizione antifascista faceva venir meno la risorsa politica principale del progetto togliattiano; il "legame di ferro" con l'URSS confinava il PCI nell'area della legittimazione democratica escludendolo dalla legittimazione a governare. Escluso dal governo (maggio 1947), il PCI venne a costituire da allora la maggiore forza politica di opposizione, impegnata nel primo dopoguerra in un duro confronto su temi di politica sia interna che internazionale. Le cronache riportano momenti particolarmente aspri per le manifestazioni che seguirono l’attentato a Togliatti (luglio 1948) e la campagna elettorale per le politiche del 1953. In questo periodo si delineò anche lo scontro interno che avviò il ricambio generazionale alla guida del partito. Nell’VIII congresso (dicembre 1956) il partito fece propri i temi della coesistenza pacifica e iniziò a prendere le distanze dall’unitarismo di stampo sovietico prevalente nel movimento comunista. mondiale. Lo scontro politico e sociale che seguì alla fine dei governi di unità antifascista spostò le riforme e la modernizzazione del paese su un terreno in cui il PCI poté influire solo dall'opposizione, con una prolungata mobilitazione sociale volta all'allargamento del mercato interno e al superamento del regime di bassi salari e di bassi consumi. Questo limite invalicabile delle sue possibilità di competere per la guida del Paese segnò la politica di Togliatti anche dopo la fine del centrismo, l'inizio della distensione e i primi anni del centrosinistra. Il sostegno del PCI alla repressione della rivolta ungherese (novembre 1956) determinò la frattura con il PSI di P. Nenni e il suo isolamento. Nell'VIII Congresso (dicembre 1956), puntando sulla destalinizzazione, la "coesistenza pacifica" e la legittimazione delle "vie nazionali al socialismo", sancite dal XX Congresso del PCUS (febbraio 1956), Togliatti operò un rilancio della strategia democratica e gradualistica del partito, ma esso non poté andare oltre un sostegno esterno alle poche riforme dei primi governi di centrosinistra, fallendo l'obiettivo di sconfiggere la delimitazione a sinistra della maggioranza che escludeva i comunisti dal governo.

Inizio della crisi del movimento comunista internazionale col XX Congresso comunista del 1956
Con la rottura fra l'URSS e la Cina di Mao, il XX Congresso segnò l'inizio della crisi del movimento comunista. Togliatti la percepì tempestivamente e propose una sua riorganizzazione "policentrica", più aderente alla struttura del mondo che stava emergendo dalla guerra fredda, e una diversa unità basata sul riconoscimento delle differenze e dell'autonomia dei paesi socialisti e dei partiti comunisti. La proposta si fondava sulla percezione dell'interdipendenza che ormai caratterizzava il sistema delle relazioni internazionali e sul convincimento che tutto il movimento comunista avrebbe dovuto battersi per superare la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Togliatti muoveva dal riconoscimento della priorità degli interessi comuni al genere umano, rispetto a quelli di classe, di Stato o "di campo", e prospettava una profonda revisione del marxismo assumendo la pace come un obiettivo prioritario e globale. La "coesistenza pacifica" avrebbe dovuto configurarsi sempre più come una cooperazione fra gli stati, le religioni e i popoli per promuovere il disarmo e la cooperazione politica ed economica internazionale. Conseguentemente, nel Memoriale di Yalta, scritto in vista di un colloquio con Krusciov che però non si poté realizzare a causa della sua morte improvvisa, egli si spinse ad affermare la necessità di riforme democratiche radicali anche nei paesi socialisti, iniziando una differenziazione profonda del comunismo italiano dal comunismo sovietico.
Nel 1964, Togliatti muore a Yalta. Fino a questa data, sin dalla sua costituzione, il PCI si erra identificato con Togliatti che continuò, senza interruzioni, ad esserne la forza motrice nonostante fossero presenti nel partito eminenti e variegate personalità di altissimo livello.  Alla morte di Togliatti, venne eletto alla segreteria Luigi Longo, uomo dei primi giorni ed esponente di spicco della Resistenza.  Nei primi anni 1970 si delinearono nuove aspettative verso la politica del PCI, alle quali il nuovo segretario Enrico Berlinguer rispose nel 1973 con il “compromesso storico”.
La delicata fase di ‘solidarietà nazionale’ che ne seguì ebbe termine nel marzo 1979 con la decisione comunista di uscire da una maggioranza giudicata non positiva, mentre iniziavano, da un lato, un trend elettorale negativo e, dall’altro, la ricerca di una strategia di ‘alternativa democratica’. Il relativo isolamento del PCI fu confermato dal risultato elettorale del 1983. Durante la campagna per le elezioni europee del 1984, Berlinguer morì. Gli subentrò nella carica di segretario generale Alessandro Natta, seguito nel 1988 da Achille Occhetto con il quale il PCI accentuò la ricerca e l’impegno sulle riforme istituzionali.
XX congresso del PCI del 1991. Un partito che si dissolve dopo mezzo secolo
Il 31 gennaio del 1991, a 70 anni da quello storico e movimentato Congresso di Livorno, si apre a Rimini il XX ed ultimo Congresso del PCI. La conclusione più   eclatante del Congresso, espressa con una sintesi caritatevole e pietosa, ritenuta valida ancora attualmente, fu che “nel quadro del riassetto globale dei partiti comunisti determinato dalla dissoluzione dell’URSS, venne sciolto il PCI e il nuovo congresso diede vita al Partito Democratico della Sinistra (PDS)”. Contrari all’iniziativa si dichiararono i militanti dell’ala sinistra che avviarono la costituzione del Partito della Rifondazione Comunista-Sinistra Europea (PRC-SE o anche PRC) (PRS). In seguito a una divisione interna, guidata da A. Cossutta, da questo si scisse nel 1998 il Partito dei Comunisti Italiani (PdCI), di cui è segretario dall’aprile 2000 O. Diliberto, fautore, dopo la sconfitta elettorale del 2006 e l'esclusione delle sinistre radicali dal governo per aver mancato la soglia di sbarramento, di una riunificazione tra i due maggiori partiti comunisti (Comunisti Italiani e Rifondazione). Il 14 ottobre 2007 nasceva il Partito democratico (PD), di centro-sinistra, coalizione di forze riformiste che vuole essere una sintesi delle tradizioni socialista-socialdemocratica, cattolico-democratica e liberal-democratica: in questo, l'erede de L'Ulivo, al governo negli anni 1996-2001 e 2006-2008.

La Sinistra oggi
Quella lontana scissione dal PSI, interrotta solo nel periodo CNL-Costituente e fino al ’56, può essere, oggi, considerata un determinante “vizio d’origine”, mai superato, pur avendo raggiunto una configurazione “monolitica” che gli eredi di Togliatti non hanno saputo conservare. Oggi, abbiamo di fronte un ondivago coacervo di forze e menti residuali di Sinistra e di Centro, con qualche “refuso” di Destra, che ha conservato ben poco di quel partito d’origine che, ormai,  non potendo più essere individuato diversamente, viene classificato genericamente come “Sinistra”. Una sinistra caratterizzata da devastanti e litigiose forze centrifughe con i suoi personalismi che, ancora oggi, prevalgono sugli interessi collettivi ben lungi da quello “spirito costituente” che caratterizzò la “scoperta” o “ritrovata” (?) “Democrazia” Italiana dopo la dittatura fascista. Sarebbe facile, dopo cento anni, trarre un giudizio totalmente negativo sul PCI guardando al clamoroso fallimento del comunismo internazionale. Tuttavia, al PCI di Togliatti va riconosciuto non solo il merito di aver dato un valido contributo alla lotta contro il nazifascismo ma anche per avere, con lucida lungimiranza, messi da parte gli interessi di partito, essere stato in grado di trovare quella convergenza tra diverse e contrapposte correnti di pensiero tanto necessaria per la stesura della nostra Carta Costituzionale. La maggioranza che elaborò e votò la Costituzione fu il frutto di un compromesso tra la sinistra e i cattolici sui principi fondamentali, anche se i liberali esercitarono un'influenza decisiva sui meccanismi istituzionali e in particolare la separazione dei poteri.  L’indimenticabile Giorgio La Pira, tanto deriso, avversato e forse, troppo poco amato, sintetizzò le due concezioni costituzionali e politiche alternative dalle quali si intendeva differenziare la nascente Carta, distinguendone una "atomista, individualista, di tipo occidentale, rousseauiana" e una "statalista, di tipo hegeliano". Secondo i costituenti, riferì La Pira, si pensò di differenziarla nel principio che "per il pieno sviluppo della persona umana, a cui la nostra Costituzione doveva tendere, era necessario non soltanto affermare i diritti individuali, non soltanto affermare i diritti sociali, ma affermare anche l'esistenza dei diritti delle comunità intermedie che vanno dalla famiglia sino alla comunità internazionale". La Costituzione venne, infine, promulgata il 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1948. A parte questi meriti si può affermare a “consuntivo” che la Sinistra, per tanti anni, ha sempre svolto soltanto un ruolo di opposizione non riuscendo mai a divenire una credibile e stabile forza capace di governare il Paese…

Tristi e amare considerazioni finali
Dopo quanto precede è possibile trarre ancora qualche insegnamento per il futuro? Il PCI resta un lontano ricordo e cosi la DC, il PSI, il PRI e tutti gli altri partiti del cosiddetto “arco costituzionale” storico. Alla luce della attuale situazione socio- politica, economica ed etica, basterebbe ispirarci ancora a quei principi che nei tempi così tragici del dopo guerra hanno consentito al Paese di risollevarsi con dignità riguadagnando rispetto e ammirazione nel consesso delle Nazioni. Sia il ricordo di questo centenario una occasione di riflessione ed un monito per non cadere, ciecamente e stupidamente, in un abisso ancora più profondo di quello dell’ultimo conflitto. Non pensate che sia giunto il momento di appellarci, senza ulteriori ritardi, a quel sentimento di Unità Nazionale che già ci fu così “congeniale”? Pensate alla sospensione delle ostilità tra PSI e PCI, alla collaborazione di tutti i partiti per “riavviare” l’Italia, al riconoscimento, da parte di tutte quelle forze così distanti, della necessità di collaborazione per il bene comune, per un unico intento. Non pensate che ancora oggi sia più che attuale questo storico esempio dato da quei politici? Sarebbero i nostri attuali politici essere all’altezza di tali “saggi” precursori? E’ difficile dover ammettere che, se finora non ce l’hanno fatta, è perché non hanno gli “attributi”… Chissà ? forse un guizzo di orgoglio potrebbe ancora salvarci….
Ravenna, 8 gennaio 2021
Tobia Costagliola


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In viaggio con Vittorio G. Rossi

G. Rossi

DLNEWS 26
DL NEWS CULTURA
Notizie e commenti a cura di Decio Lucano  6 dicembre 2010

Sommario: Cantieri e porti
Brevi,ma importanti
Troppa letteratura di mare
Libri
Tra i fari del Maine
In viaggio con Vittorio G. Rossi

TROPPA LETTERATURA DI MARE.
BISOGNA ARGINARE QUESTO DILUVIO DI PAGINE ?
IL DIBATTITO E’ APERTO


Avevo scritto nella precedente Newsletter:
Una cara amica mi ha chiesto l’elenco dei libri di mare editi nel 2010. Avevo cominciato a mettere in colonna qualche titolo, poi il lavoro è diventato una lenzuolata di titoli. Allora mi sono fermato e vi ho rinunciato. Ci sono tantissimi libri di mare e di nautica e di fantasie varie collegate al mare. Troppa letteratura di mare in Italia quando non esisteva qualche decennio fa nulla o quasi.
Oggi tutti scrivono di mare e i ragazzi fanno il giro del mondo in solitario a vela.
Ne riparleremo, bisogna arginare questo diluvio di pagine…che ne pensate? (DL)


ALCUNE RISPOSTE

Si anch’io ho sempre avuto molta diffidenza per i “diportisti” che hanno letto molto e navigato poco. Ma se solo i1% di nuovi lettori di testi di mare fosse colto dall’irrefrenabile desiderio di navigare, di vivere il mare: ben venga la moltitudine, il diluvio di pagine! Bisogna solo sempre stare attenti a “ non scriversi addosso”, ma far opera di “ apostolato del mare “.
Come dice Antonio Soccol, non è amore per il mare, è fede!
No, non me la sentirei di  arginare. Scoprire autori nuovi come Alberto Cavanna, per citarne il più noto dell’ultima generazione, è un piacere. Non mi spaventa il numero, non è mai troppa la letteratura di mare in Italia, si ha solo il dispiacere di non essere in grado di leggerli tutti. (S.A.)

Si, salvo che chi scrive di mare riesca ad inculcare nelle nuove leve il concetto di un andar per mare nuovo. Che assomigli il più possibile alla creazione di un villaggio umano dove gli abitanti si uniscono e si trovano nell’intento di creare felicità. Felicità di viaggiare , felicità  di lavorare, felicità di amare, felicità di leggere e  discutere per approfondire quello che hanno letto. Felicità di conoscere culture diverse. Felicità di guardare il cielo e il mare che si sposano e poi bisticciano e poi fanno la pace, come noi uomini non sappiamo fare.(L.C.)

articolo dal SecoloXIX G. Rossi


Ci sono   in Italia tre specie di letteratura marinara. Una piace ai marinai , ma non piace ai letterati; un’altra piace ai letterati, ma fa sorridere o ridere i marinai;infine la terza,che piace  tanto ai marinai quanto ai letterati; ma la letteratura di questa specie in Italia è scarsissima.( Vittorio G. Rossi )

Diminuisce la cultura e aumentano i consumi culturali, cioè una finta ma confortevole iperculturizzazione di massa fatta di festival, bestseller, mostre-evento che dà l’illusione di sentirci problematici , informati, consapevoli, senza esserlo affatto .Oggi c’è una smania di trasformare qualsiasi cosa in una storia da raccontare, compresi gli scienziati e i giornalisti che invece di darci formule o informazioni ci raccontano delle storie.( da Meno letteratura per favore di Filippo La Porta, Bollati Boringhieri).


In viaggio con Vittorio G. Rossi
Da Maestrale, 1976, cap. 3 , pag. 140/
Il destino dell’uomo, Dio, la Scienza, la religione cattolica, l’Islam, la Storia, la Mitologia, la politica…

Quando l’uomo viene sulla terra, prima di aprire gli occhi, apre la bocca e dice,
“mangiare”. Continuerà a dirlo dalla culla alla tomba, come dice la gente poetica. Poi darà un’occhiata al mondo circostante, e si dirà: “che cosa devo credere?”.
Avere la risposta alla prima domanda, “mangiare”, può presentare qualche difficoltà; all’altra domanda, quella del credere, le risposte pioveranno come la pioggia in quella poesia di D’Annunzio, dove piove sul pineto, piove sui freschi pensieri, piove sui vestimenti leggeri e tutto quanto; ma ora nelle scuole imparano le poesie dove non piove mai perché c’è lo sciopero nell’azienda.
Quando all’uomo succede qualcosa di brutto, l’uomo se la prende sempre con un altro; per questo nella vita dell’uomo il destino ha un’importanza enorme; quando le cose gli vanno male, è il destino; quando gli vanno bene, allora è lui.
Ma se il destino c’è o non c’è, non si sa; l’uomo vive dentro cose che non sa; quando mangia le triglie, non sa perché al mondo ci sono le triglie. E l’uomo che le mangia, potrebbe dare una risposta; le triglie non possono.
E l’uomo dice che le triglie ci sono perché l’uomo mangi le triglie; ma quando l’uomo non c’era, e le triglie c’erano già?
E c’è un universo solo, ed è quello guardato dall’uomo? o ce n’è altri, e l’uomo non li può guardare? Ma quando l’uomo non c’era chi guardava questo universo?
Oppure Dio ha creato l’uomo perché ci fosse qualcuno che guardasse il suo capolavoro, e dicesse, bravo, hai fatto un bel lavoro?
E l’uomo come può sapere se c’è Dio o non c’è; se c’è il destino o non c’è; se lui non sa neanche perché c’è la patata?
Nel cielo non c’è una stella che si chiama Gemma 52; c’è una stella che l’uomo chiama Gemma 52, perché gli è piaciuto darle quel nome, come chiamare Giulietta una bambina; ma se si domanda a uno pratico di stelle dove è Gemma 52, quello punta il telescopio, e dice, guardi, è là; e lei c’è.
Ma l’uomo non può dire di sé stesso, se domani sera alle 8 lui sarà ancora vivo o morto.
Ma allora chi è che fa gli avvenimenti? Un fatto non si sa mai con precisione da dove viene. L’uomo può spiegare tutto col destino; o tutto senza destino; o con un po’ dell’uno e un po’ dell’altro; e poi, dopo le spiegazioni, ne sa come prima.
Prima quelli che facevano i piani per fare le battaglie, facevano tutto con la logica; prevedevano tutto quello che poteva succedere, così sulla carta vincevano tutte le battaglie; poi c’erano le battaglie, e allora succedeva l’imprevisto; e l’imprevisto succede anche fuori delle battaglie.
Ora i piani fatti con la logica, li chiamano i “libri dei sogni”; nella politica i “libri dei sogni” sono ancora in uso.
La scienza strumentale non fa che scoprire misteri; cioè la sola cosa che si impara volendo uscire dall’ignoranza, è la nostra sublime ignoranza.
Una volta c’erano i greci antichi; essi hanno scoperto la testa dell’uomo, cioè che essa non serve solo per grattarsela.
Essi erano così intelligenti, che non adoperavano mai le mani per fare qualcosa con le mani, per non fare dispiacere all’intelligenza; anche agli intellettuali di adesso, guai a chi gliela tocca; per mani quei greci adoperavano gli schiavi.
Ma adesso l’intelligenza non serve quasi più, tolta quella che ci serve per farci felici, cioè quella adoperata dalla politica; e anche le mani adesso servono poco; così non è facile capire chi erano quei greci antichi.
E anche quando diciamo i romani antichi, gli etruschi, gli egizi con le piramidi e le mummie, chi sa chi erano; quelli che conosciamo noi, sono quelli scritti sulle carte; ma gli uomini vivi non sono di carta.
Per spiegar le cose che non si potevano spiegare, quei greci antichi avevano inventato gli dèi e le dee, ce n’era una quantità, facevano pittoresco il vivere nel mondo; adesso il mondo è fatto di onde di probabilità, e nessuno sa che roba è.
Ma neanche gli dèi e le dee bastavano a spiegare le cose che succedevano all’uomo; allora a quei greci antichi così intelligenti venne l’idea che ci doveva essere qualcosa d’altro, e non si sapeva che cosa era, e neanche gli dèi e le dee potevano modificare le loro decisioni; e a quella cosa sconosciuta diedero un nome, quando non si sa una cosa, si dà un nome a quella cosa, e allora sembra di saperla.
Quella cosa sconosciuta e così potente, la chiamarono l’Anànki  o Necessità.
E ogni essere umano, dicevano, ha la sua porzione di futuro già stabilita e irrevocabile, quanti giorni da vivere, e anche le ore, e le cose belle e quelle brutte; e l’uomo non può modificare niente; ed era la così detta mira cioè porzione, ed è scritto moira.
Anche l’eroe Achille così eroe e così raccomandato agli dèi, quando viene la sua ora, non ci può fare niente. Una volta mi mandarono a Orlèansville e dintorni; c’era stato un grande terremoto e continuava; è in Algeria, e i più là sono musulmani; e loro credono come i greci antichi che tutto è stabilito, compreso il giorno e l’ora precisi della morte, e questo dal principio dei tempi; ma quando veniva la scossa, scappavano come saette, anche più veloci di noi cristiani, perché noi abbiamo i santi.
Ma la carne dell’uomo in quei casi è lei che prende il comando; e la carne non tiene conto delle regole fatte dall’uomo e di quello che lui crede o non crede; semplicemente la carne non vuole morire né soffrire; è la carne.
Islàm vuol dire sottomissione alla volontà di Dio; e loro Dio lo chiamano Allàh; ed è mistero come quando si chiama Dio.
Ma tra loro e Dio non c’è confidenza ; ora quando da noi prendono in bocca il corpo di Cristo, cioè Dio, stanno dritti in piedi e lo guardano come se fosse pane; e loro mettono la fronte per terra, solo per dire , “ Allàh àkbar , Dio è il più grande”; e noi lo chiamiamo “Padre nostro , Padre nostro che sei nei cieli”; e in nessuna religione di quelle che ho praticato, Dio lo ho mai  sentito chiamare confidenzialmente “ Padre nostro “.
Nell’Islàm tutto quello che c’è e c’è stato e ci sarà sulla terra degli uomini, di buono e di cattivo, è stato creato da una volontà immutabile; le nascite e le morti, le malattie, le vittorie e le sconfitte, il paradiso, l’inferno, e tutto quello che fanno e faranno gli uomini, tutto ha il suo qadàr, cioè il suo destino già fissato per l’eternità.
La prima cosa creata da Dio è stata la Penna; Dio le ha detto, scrivi, e lei ha scritto; e ora tutto è mektùb, è scritto, e succederà alla sua ora, e per l’eternità; e ogni uomo ha il suo mektùb, e non può sottrarsi a esso in nessun modo, crollerebbero i cieli.
La volontà dell’uomo non esiste; quando l’uomo vuole una cosa, è Dio che dal principio dei tempi ha stabilito che gli venga quella voglia;è mektùb, è scritto.
E sulle loro bocche c’è sempre quella parola, è mektùb, è scritto.
Ma dentro la carne dell’uomo c’è qualcosa che niente può distruggere, e sono le contraddizioni, l’uomo ne è pieno, per questo è sopportabile; e c’è anche la finestra che resta sempre aperta anche se le altre si chiudono, ed è la speranza.
Io ho sentito dire ogni momento, “tu mi porti bàraka, la benedizione, la buona fortuna”; ed essi sono avidi delle cose che loro chiamano merzùg, cioè cose che portano la buona fortuna; e non può essere, perché tutto è già irreparabilmente stabilito.
Però è bello vedere l’uomo che tende il suo bicchiere davanti alla fontana inaridita.
C’è chi considera la nostra terra come un posto dove tutto quello che succede, è un fatto privato della terra; ma questa è un’idea da bambini piccoli, anche se sopra di essa i filosofi ci fanno le filosofie.
La terra è un pezzetto, un pezzettino dell’universo; se uno potesse vedere l’universo coi suoi occhi, non ci vedrebbe mai la terra, se l’uomo non ha un odore speciale tanto forte da sentirlo anche col naso da quelle distanze; e tutto quello che succede sulla terra non dipende solo dalla terra ma da tutto l’universo, lo sterminato universo dove il metro per misurare è l’anno luce.
E questo lo hanno già detto nei vecchi tempi, quando nessuno sapeva quanto era 
grande l’universo; e ora la stessa cosa la dice la scienza strumentale, cioè la cosa
più moderna e seria tirata fuori dall’uomo così piccolo.
Ma l’uomo vuole spiegare tutto, e crede che basti la sua testa a spiegare tutto;ma chi osserva una cosa , fa parte della cosa che lui osserva; se io guardo una candela accesa, io sono dentro la candela accesa, e la candela è dentro di me.
Anche le cose che sembrano semplici come il pane, non sono semplici; il pane non è una cosa semplice; per farsi mangiare dall’uomo, Dio si è fatto pane.
La natura può fare lo stesso in modi differenti e innumerevoli. E nessun fatto è il prodotto di una sola causa; esso è il prodotto di cause innumerevoli e in parte sconosciute. E dire che i fatti umani dipendono dalla storia, come se la storia fosse un fiume che scorre e porta via, è come dire che le uova nel tegamino le ha fatte il tegamino.
Non sappiamo che cosa è il magnetismo, quello che sposta la limatura di ferro, eppure lo misuriamo e adoperiamo, e i nostri piedi posano sulla calamita chiamata volgarmente la terra; e le forze oscure, cioè quelle che si svolgono fuori della nostra possibilità di osservarle coi nostri pregiati arnesi, devono essere piuttosto numerose.
E le cose che sono dentro di noi, nelle nostre profondità, e nessuno le conosce, e neanche sa che ci sono? e tutt’a un tratto esse insorgono, si impossessano di noi, ci scrollano come un alberello?
E la cosa che c’entra meno di tutte, è il così detto ragionamento umano; e l’uomo si fa chiamare l’animale ragionevole, come se si attaccasse la medaglia.
Io non lascio frugare nei miei pronostici; l’avvenire sconosciuto fa tutta la bellezza della vita; se no uno tornerebbe indietro dopo aver bevuto il primo latte.
E poi sono uomo di mare; so che è difficile fare i pronostici anche maneggiando oggetti domestici come il vento e la pioggia.
Anni fa ero a Rabàt nel Marocco; c’era la guerriglia; moriva molta gente, e c’era chi moriva e chi voleva diventare ministro o ambasciatore; un giorno eravamo sul piazzale davanti all’albergo, eravamo io e un  mio amico giornalista francese, lui scriveva a macchina, io gli tenevo silenziosa compagnia. Venne una vecchia bèrbera del Marocco allora spagnolo; dicono che sono molto brave a legger la sorte; lei voleva che le mostrassi la mano, io non volevo; ma disturbava il mio amico che lavorava; allora le mostrai la mano, le dissi, e poi fila.
Lei guardò la mia mano; disse, prima te ne vai di qui, e meglio è.
Il giorno dopo eravamo in un posto distante un centinaio di chilometri; fu una brutta giornata, spari, incendi e molti morti; stavano per uccidere me, quel mio amico francese e un giornalista inglese; l’operazione fu interrotta dall’inaspettato arrivo di alcuni paracadutisti della Legione Straniera, gente che sapeva il suo mestiere.
Che cosa aveva visto quella vecchia berbera? o non aveva visto niente, e aveva indovinato, in quei giorni in quei posti non era difficile? e quei paracadutisti arrivati nel momento giusto?
Una ventina di giorni dopo quel mio amico lo vidi dentro una cassa da morto con 49 pugnalate; e una offendeva l’uomo come uomo, era l’usanza araba.
Un grande fisico, premio Nobèl, dice che quando un gatto nero traversa la strada, e subito c’è un incidente nella strada, nessuno può dire se è stato lui, il gatto nero; o se lui ha dato semplicemente l’avviso; oppure non c’è niente di comune tra il gatto e l’incidente.
Una volta in navigazione domandai a una signora se potevo buttare in mare una sua scatola di lucùmi; sono dolci balcanici gommosi e di nauseoso odore; “la butto?”, le dissi; lei disse “butti “: e io buttai, mi pareva di mettere un po’ d’ordine nel mondo.
Ma lei fece un grido, si mise le mani sulla testa; nella scatola c’era il suo passaporto.
Da quel semplice fatto sorse una lunga storia per quella signora; e chi c’era al principio di quel fatto? Il destino? O altre forze oscure? o soltanto la mia stupidità?..............
VITTORIO G. ROSSI


Rossi Vivo


“Io non sono un letterato, sono uno di voi,…per questo ho potuto fare una letteratura per la gente” scriveva ai marinai Vittorio G. Rossi, e non mancava nei suoi scritti di biasimare critici e intellettuali da tavolino che “ parlavano parole “, come non poteva sopportare certi politici che chiamava “molluschi “.
E gliel’ hanno fatta pagare.
Dopo la sua morte, l’8 gennaio 1978, l’intellighenzia letteraria ha steso un telo sulle sue opere e il contatto con la gente si è lentamente spento, seppure l’abbrivo ideale della sua letteratura così originale e poetica ha continuato a circolare ancora tra librerie e scuole, tramandata da chi lo aveva letto, conosciuto e amato.
Anche alla nuova generazione del suo editore, che pure aveva, dopo Croce e Pirandello, pubblicato una collana  a suo nome non interessava più questo scrittore, che aveva segnato un solco nella cultura italiana.
Da qualche anno un editore ha ristampato due libri, Sabbia, ambientato tra gli arabi e i beduini, e Cobra nell’India che solo Rossi poteva farci conoscere.
Nel 1940 Francesco Flora nella sua monumentale Storia della letteratura italiana, a cavallo tra le due guerre, scrive: “ V.G. Rossi ha la psicologia vigile d’un calmo stupore degli uomini che han viaggiato non per disperazione o mestiere ma per esperienza di umano; e lo ispira la virtù originaria del mondo naturale, ove l’uomo più aderisce alla natura e meno alle falsificazioni della società”.
E  un altro grande letterato, Gaetano De Sanctis,  dice di Rossi : “un grande artista che merita il suo posto non solo nella letteratura italiana ma nella letteratura mondiale: un posto del quale i suoi corregionali hanno tutto il diritto di sentirsi orgogliosi e il dovere di conservarne memoria “.
Giornalista e poeta ( definisce poesia il soffio di Dio ) si integrano a vicenda nella figura di Rossi che considera la vita l’unica cosa che abbiamo, concetto che informa tutta la sua lucida narrazione. Gli piacciono gli animali ( la loro indifesa bellezza nella natura ), le piante, tutto ciò che vive, si muove e anche soffre. In Nudi o vestiti racconta nel capitolo “ Le balene muoiono con la testa rivolta al sole “ la fine maestosa e commovente del grande cetaceo arpionato al largo delle Azzorre, ferito a morte quasi si trattasse dell’agonia di un uomo; uomini e animali accomunati dall’aspra lotta per l’esistenza.
Dire che è uno scrittore di viaggi  non è, come scrisse nel suo Rossi vivo il professor Alberto Broglia, farne il miglior elogio, perché Rossi ha una complessa personalità di artista, che non è alla ricerca del bel pezzo di stampo esotico ma è rivolta nel dare risalto all’uomo.
Filosofo della felicità, amante della vita, aveva scritto che le donne sono le sole facce sveglie della creazione.
Ma è anche uno storico.
I suoi due libri Cristina e lo Spirito Santo e Miserere coi fichi sono libri di una storia viva, come se fosse lui uno dei protagonisti  di quell’epoca e la finzione nella trama riesce, anzi diverte, perché la Storia emerge come lo zampillo della sorgente  di vita vissuta. La regina Cristina geniale, litigiosa, prepotente, tirannica ed anche anarchica regina di Svezia  rappresenta la materialità sfacciata e mondana e dall’altra la Santa Romana Chiesa depositaria dello Spirito Santo.
Una  meticolosa ( dal punto di vista storico ) e frizzante commedia di sapore shakesperiano.
L’altro romanzo ci porta nella rivoluzione di Masaniello nella Napoli dove lui impersonifica un commesso viaggiatore proveniente dalle città del Nord Italia e ci racconta la “ rivoluzione dei fichi “ alla ricerca della verità, mettendo alla berlina personaggi e aristocratici, e tutta la classe politica di ieri e di oggi.
Lo stile inconfondibile di Rossi è nato da un lungo esercizio di sintesi dei tomi della letteratura italiana del Medioevo; ogni sua riga apparentemente semplice contiene più di un concetto, e  fa pensare…
Un duro lavoro di lima che ci ricorda  Hemingway: è meglio lavorare le parole sulla mola piuttosto che tenerle pulite e inutili nel cassetto. La sua narrazione  scorre saporosa, sostanziosa e fresca, come la buona focaccia con olio di frantoio che ogni mattina, quando tornava a Santa Margherita Ligure acquistava nel forno vicino alla spiaggia; e poi, d’estate, si sedeva al tavolino del bar sul lungomare a ricevere la gente, a scrivere appunti per articoli, libri, idee per nuovi itinerari.
La gente lo incontrava volentieri, curiosa delle sue esperienze intorno il mondo;  capiva che non era intruppato nelle conventicole letterarie  e apprezzava la sua conversazione aperta,  anticonformista e antirettorica.
Ho raccolto una parte delle conversazioni avute con lui in un libro pubblicato nel 2006 intitolato Marrubbio, Colloqui con Vittorio G. Rossi.
C’è dentro tutto: mare, scienza, disciplina, fede, filosofia, poesia, giovani, anziani, universo, tecnologia…
Si , Rossi è vivo.
Decio Lucano

Rossi
                  Vivo di G. Rossi


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