a cura di Decio Lucano
                                                                                                                                                                                                                   
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L'Automazione Navale

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NATALE DI SANGUE 1920 2020 A FIUME

Il dottor Marco Macciò ha svolto alla Società di Letture e Conversazioni Scientifiche, ente morale, di Genova, una importante relazione sull’anniversario dell’impresa fiumana che riportiamo di seguito. La Società fu fondata nel 1866 ed è uno dei più antichi sodalizi culturali di Genova. Marco Macciò ha rivisitato questa pagina della storia italiana con la sua consueta verve, approfondendo contenuti inediti e mettendo in luce i tanti personaggi politici del tempo con un D’Annunzio bolscevico latinizzante.

CENT’ANNI FA: IL “NATALE DI SANGUE”
di Marco Macciò 
Chi valuta il presente l'unica cosa, non sa nulla dell'epoca in cui vive -
Oscar Wilde



La sera del 24 dicembre 1920 le truppe di Enrico Caviglia - un militare di rilievo avente il ruolo di Commissario Straordinario per la Venezia Giulia - attaccarono Fiume per por fine all’occupazione dannunziana del Quarnaro: la terra bagnata dal tratto di mare che s’incunea tra la penisola istriana e la riviera croata. Cadde qualche vittima, ma il Vate più che con le armi cercò di difendersi invocando un’insurrezione a Venezia e Trieste. Queste città, però – salvo qualche moto, prontamente stroncato - non si mossero, poiché in larga misura la loro popolazione – come un po’ quella di tutta l’Italia – era ormai stanca dell’istrionismo dannunziano, sebbene fosse anche mal disposta a rassegnarsi sia pur obtorto collo a una “vittoria mutilata”, come proprio il Poeta aveva definito l’eventualità d’una pace incompatibile con gli oltre 41 mesi di guerra e sacrifici gravati sull’Italia. Alla radice degli spari dei soldati di Caviglia v’erano due fatti. Il primo: da un po’di settimane gli italiani e gli iugoslavi (dopo che i loro rapporti si erano normalizzati tramite il ritiro delle truppe d’occupazione tricolore presenti in Albania) a Rapallo – precisamente a villa Spinola in San Michele di Pagana – avevano cessato di bisticciarsi su come strapparsi reciprocamente dei lembi di terra e, al prezzo dell’esplicita rinuncia da parte di Roma ai territori dalmati etnicamente slavi, s’erano accordati sia sullo spartiacque alpino, sia sul controllo italiano del Mare Adriatico, sia su come collaborare economicamente. Però, ed ecco il secondo fatto, D’Annunzio e i suoi “legionari” - che ormai da 500 giorni, in barba a Roma e Belgrado, tenevano in pugno il Quarnaro - avevano rifiutato quell’intesa, giacché essa non contemplava l’annessione dell’area fiumana al Regno d’Italia. Una decisione che, però, li metteva in un cul de sac, giacché – stando a una celebre battuta che vent’anni dopo Jean Renoir avrebbe inserito nel film “La règle du jeu” - “il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni”. Nel caso, quali erano le ragioni dei vari personaggi coinvolti nell’avventura fiumana? Erano molte, complesse e annidiate nei meandri d’un lungo percorso, che va seguito passo per passo, se davvero si vuol mettere in chiaro l’âpre veritè.


Le “buone ragioni” di Giolitti

Si può incominciare da quelle di Giolitti, che alla fine del ’20 era a capo del suo quinto (e ultimo) Gabinetto. Erano due. Innanzitutto, Giolitti firmando il Trattato di Rapallo aveva tolto l’Italia dall’impasse internazionale nella quale si trovava da quasi due anni, a seguito in primis dei pasticci combinati a Versailles da Vittorio Emanuele Orlando: il “Presidente della vittoria”. Un gran giurista, ma pure un uomo privo d’esperienza in negoziati politici internazionali, il quale era andato alla Conferenza della Pace “pronto a parlare in tutte le lingue che non conosce” (come aveva sibilato Nitti, che lo detestava) tornandone con le pive nel sacco e lasciando Lloyd George, Wilson e Clemenceau irritati con lui. Secondariamente, l’Italia a Rapallo aveva ottenuto sia che le fossero assegnate Zara e un piccolo (ma strategico) arcipelago dalmata non lontano dalle Tremiti, sia che i confini della Venezia Giulia previsti dal Patto di Londra fossero allargati fino al Monte Nevoso e alle isole dalmate di Cherso e Lussino, sia che gli italiani della Dalmazia potessero scegliere liberamente la loro futura cittadinanza, sia, infine, che Fiume e la striscia costiera istriana necessaria per permettere la connessione diretta della città con l'Italia fossero dichiarate “Stato libero”. Vale a dire aveva strappato il pieno riconoscimento internazionale dell’indipendenza di quell’aggregato territoriale e il diritto degli abitanti in quei luoghi di scegliere autonomamente il loro assetto costituzionale. Insomma, di sicuro Giolitti non voleva che il categorico rifiuto di D’Annunzio di lasciare Fiume finisse per strappare nuovamente la rete faticosamente ricucita da lui e, soprattutto, da Carlo Sforza, il suo Ministro degli Esteri.

Le “buone ragioni” dei fiumani

Vi erano poi le ragioni dei fiumani. La prima era che la città, dopo oltre un anno di sostanziale isolamento internazionale, si trovava in una pessima realtà economica, a dispetto del fatto che sotto gli Asburgo era stata un centro molto florido, disponendo d’un porto ricco di traffico contornato da un valido apparato industriale impegnato sia nell’elaborazione delle materie prime importate per via di mare (pilatura del riso, raffineria degli olî minerali, tostatura del caffè, cc.), sia nelle produzioni manifatturiere , sia nelle attività direttamente collegate al movimento marittimo (cantieri, ecc.). Addirittura, tra i “legionari” e la cittadinanza, ormai obbligata a tirare la cinghia, erano cominciati a serpeggiare malcontento e antipatia. La seconda ragione era l’assenza d’unità di vedute tra i fiumani di lingua italiana. Qualcuno continuava a essere esaltato dal pressoché permanente clima sagraiolo imposto dal Poeta, ma altri avvertivano stanchezza, se non repulsione, sia verso l’anarchia crescente in città, sia verso i modi troppo spicciativi con i quali i “legionari” si comportavano da padroni, sia infine verso il via vai di personalità grandemente popolari che venivano a esprimere la propria solidarietà al Vate. Come Marconi, definito dal Vate “il dominatore delle energie cosmiche”, che era arrivato a bordo del suo panfilo “Elettra” portando in dono una potente stazione radio o Toscanini, che era giunto con i suoi famigliari e la sua orchestra, battezzata dal Poeta “Legione Orfica”, per tenere un concerto a favore dei poveri di Fiume. Ma, soprattutto, la spaccatura tra i fiumani di lingua italiana correva tra gli irredentisti pervicacemente vogliosi dell’annessione di Fiume all’Italia e gli autonomisti. Cioè chi preferiva che Fiume, anziché innestarsi in uno Stato a struttura fortemente centralizzata come il Regno d’Italia, cogliesse la chance offertale dal Trattato di Rapallo: divenire una sorta di Montecarlo in Adriatico. Cioè, creare con l’Italia un rapporto più o meno in linea con quello esistente tra la Francia e il Principato dei Grimaldi. Tanto più che il crollo degli Asburgo aveva tolto a Fiume un suo secolare beneficio: il corpus separatum, ovvero l’autogoverno amministrativo della città e del suo contado, sia pur sotto l’egida prima di Vienna e poi di Budapest. Tra l’altro, gli autonomisti non erano pochi. Prova ne è quanto era accaduto giusto un anno prima. Roma – un po’ per porre un freno ai fuochi d’artificio di D’Annunzio, un po’ per non mettersi contro i molti italiani benevoli nei confronti della presenza del Vate a Fiume, un po’ per evitare che dopo qualche mese d’occupazione la fame investisse la città – si era dichiarata pronta, a riconoscere a Fiume la facoltà di decidere del proprio destino e a rispettare la sua scelta, checché - entro certi termini - ne pensassero Londra, Parigi, ecc. Tuttavia, questa soluzione – che era piaciuta a molti, anche nell’entourage del Poeta – non garbava al “Comandante”, mancando essa d’una duplice garanzia: la piena impunità per D’Annunzio e per i suoi collaboratori e l’impegno a lasciare il Vate a capo di Fiume fino all’annessione. Così, il Poeta per tagliare la testa al toro aveva sottoposto quel modus vivendi a plebiscito, ma - a dispetto delle azioni intimidatorie portate avanti dai suoi fedelissimi - la maggioranza dei votanti si era espressa a favore dell’offerta di Roma. Certo, quel redde rationem era stato un pasticcio: s’era espresso nemmeno il 40% della cittadinanza adulta in un clima incandescente e mentre Roma metteva ben in chiaro quanto un placet avrebbe significato per i fiumani l’uscita dalla miseria connessa alla loro situazione d’assediati. Comunque, anche se il Poeta non aveva accettato la decisione popolare, l’atteggiamento di tanti fiumani era divenuto evidente: il prezzo dell’annessione non deve essere troppo alto.

Le “buone ragioni” degli Alleati

Inoltre, vi erano le ragioni dei maggiori Alleati: Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Che non erano poche, giacché Fiume non faceva parte del bottino negoziato dall’Italia nella primavera del ’15, ancorché questo porto sia collocato al confine meridionale dell’Istria, regione assegnata a Roma in caso di vittoria. Come mai? Perché ai russi e agli anglo-francesi non garbava l’espansionismo adriatico dell’Italia e, quindi, a essi premeva che almeno uno scalo significativo restasse in mano austroungarica. Però, non sempre la pianta diviene quella che il suo seme induce a presagire. Infatti, la fine del conflitto non aveva portato la resa dell’impero asburgico, ma la sua implosione. Una totale andata in frantumi che aveva scatenato delle manifestazioni popolari miranti a dare degli Stati autonomi alle differenti entità storicamente sottomesse a Vienna. E da questi sommovimenti tra l’altro era sorto, sotto la dinastia Karađorđević, il Regno Serbo-Croato–Sloveno (in pratica, la futura Iugoslavia). Di fatto, questo regno era una zeppa finita tra i piedi delle diplomazie all’opera a Versailles, poiché Alessandro Karađorđević aveva spedito le sue truppe a occupare Fiume, onde impedire il riconoscimento internazionale di quanto già proclamato dai fiumani di lingua italiana (metà della popolazione, ma la frazione di maggior rilievo economico e intellettuale) dopo che i militari austroungarici avevano abbandonato il campo: che l’intera città fosse annessa al Regno d'Italia. Così, Londra, Parigi, ecc. per salvare capra e cavoli – visto che pure Roma aveva fatto sbarcare dei soldati a Fiume – avevano deciso di spedire in fretta e furia nel Quarnaro un corpo interalleato: dei soldati italo-anglo-franco-statunitensi messi lì per bloccare gli scontri tra le locali fazioni filo italiane e filo croate. Tuttavia, a questo corpo interalleato non era facile impedire che di frequente tra gli irredentisti di vario colore scoppiassero delle violenze fomentate dalla piega assunta dalle trattative in corso a Versailles tra i vincitori della Grande Guerra. Lì l’Italia si trovava a mal partito. A metterla in difficoltà erano soprattutto gli Stati Uniti.

Vittorio Emanuele Orlando a Versailles

Per quale motivo? Perché la loro discesa in campo era stata risolutiva per la sconfitta degli Imperi Centrali e della Turchia e Wilson, il loro Presidente, voleva far pesare il credito accumulato dal suo Paese verso l’Europa per disegnare un quadro geopolitico in linea con le sue idee su come conseguire una pace equa per tutte le nazioni. E una di queste idee era la definizione di frontiere etnicamente equilibrate. Un concetto dal suono sinistro per l’Italia, giacché bloccava l’estensione del Tricolore tanto verso la Dalmazia settentrionale, quanto verso Fiume. Oltre che verso il Sud Tirolo e la parte orientale dell'Istria, sebbene in questi due casi il cambio di bandiera fosse previsto dal Patto di Londra. Il placet americano all’annessione del Sud Tirolo poi era giunto nella primavera del ’19, ma sulle altre controversie Wilson era rimasto irremovibile. A lui, ad esempio, non pareva proprio il caso d’imporre a oltre un milione di dalmati di passare “come un gregge” sotto la dinastia Savoia. In più, a complicare le cose a Versailles provvedeva il medesimo Orlando, che spesso infastidiva tanto Wilson, quanto Lloyd George e Clemenceau con la sua tendenza a infiorare esasperatamente di retorica e, addirittura, di lacrime le sue perorazioni, sebbene esse in sostanza fossero rivolte a tenere in piedi una contradictio in terminis, poiché l’Italia s’appellava al principio pacta sunt servanda per portare a casa quanto promessole nel ’15 a Londra, ma voleva che allo stesso principio un po’ si derogasse relativamente a Fiume e alle terre orientali che Roma aveva subito occupato al termine della guerra: l’Istria, la Dalmazia e quasi tutta l’Albania. Insomma, l’abituale tono a metà strada tra il comizio e l’arringa con il quale Orlando mirava a to catch two birds with one stone, anziché far breccia nella controparte, l’irritava gli Alleati e li spingeva a celiare sul comportamento del premier italiano. Tanto che una volta Clemenceau, che soffriva di problemi di minzione, aveva esclamato “Ah, se potessi pisciare come lui piange”. In particolare, a mandare in bestia Wilson era l’incapacità di Orlando di rendersi conto che il boccino era soprattutto nelle mani degli Stati Uniti e che a Versailles l’Italia, a prescindere dai sacrifici che s’era accollata durante il conflitto, chiedeva molto pur essendo il mondo una realtà geopolitica ben diversa da quella esistente nell’agosto 1914 e essa un vaso di coccio tra vasi di ferro.

Superior stabat lupus

Così, Washington avevano finito per comportarsi con Roma come un elefante in una cristalleria. Prima, mettendosi spesso a trattare Orlando come il brutto anatroccolo, giacché il big americano anche sulle questioni richiedenti il placet di Roma aveva preso l’uso di portare avanti unicamente in inglese – dunque, negoziando unicamente con Lloyd George e Clemenceau - molti dei conciliaboli che i premier tenevano dietro le quinte di Versailles per definire a quattrocchi il destino dell’Europa e delle sue colonie. Inoltre, Wilson era arrivato a far pubblicare su “Il Corriere della Sera”, ecc. un invito agli italiani al rispetto dei diritti degli slavi. Apriti, cielo! Quell’atto fuori dai rituali diplomatici da molti ex combattenti era stato equiparato a uno schiaffo, alla prova della volontà di sottrarre all’Italia un bottino duramente conquistato. Orlando aveva risposto all’increanza delle trombe americane con le proprie campane. Cioè abbandonando per protesta la Conferenza. Ma quell’impuntatura, anche se applaudita fragorosamente dai nazionalisti (che non erano molti, ma rumorosi e ben visti dai vertici delle forze armate) e approvata dalla Camera, si era rivelata un errore clamoroso, poiché superior stabat lupus. Infatti, gli americani e gli anglo-francesi avevano replicato all’agnus italiano che, qualora a Versailles fosse perdurata la sua assenza, essi avrebbero considerato decaduto il Patto di Londra, incluso l’impegno a non stipulare trattati di pace separati. Uno scacco matto, poiché in tal caso l’Italia avrebbe dovuto negoziare da sola, ovvero in condizione di maggior debolezza, i suoi nuovi confini alpini e balcanici. Così, a Orlando non era restato che porre la coda tra le gambe e tornare in Francia, mentre l’irritazione in Italia diveniva un fatto generalizzato, ben interpretato da D’Annunzio scrivendo “Se seguissi il mio istinto, io stasera con le latte di benzina che avanzarono alla beffa di Buccari andrei a bruciare Palazzo Braschi”. Cioè, l’edificio ove avevano sede la Presidenza del Consiglio e il Ministero degli Interni. Inevitabilmente, qualche mese dopo Orlando era finito politicamente al tappeto nel corso d’un infuocato dibattito alla Camera che aveva messo in chiaro quanto il suo Governo fosse inadatto tanto a portare avanti una trattativa sul versante internazionale, quanto a porre rimedio all’interno dei confini nazionali sia alle tensioni sociali derivanti dal fascino che su una parte della classe operaia e contadina esercitava l’idea di poter replicare la Rivoluzione di Ottobre, sia ai problemi in cui si dibattevano i militari smobilitati, le vittime dell’inflazione e gli ex combattenti insultati dai socialisti più accesi.

Nitti, D’Annunzio e gli annessionisti fiumani

Così premier era divenuto Nitti, ma il rapporto dell’Italia con Wilson, Lloyd George e Clemenceau s’era ancor più incrinato quando nel settembre del ’19 D’Annunzio, con sì e no un migliaio (tra ex-interventisti, nazionalisti, soldati, avventurieri, sindacalisti-rivoluzionari, e via dicendo) di volontari postisi al suo seguito, aveva occupato Fiume. Peraltro, questa città, restando irrisolto il tema dell’annessione, durante l’estate era divenuta una bomba che provocava morti e feriti anche tra i soldati del corpo interalleato inviati a dividere gli irredentisti delle due parti. Addirittura, essendoci stata l’uccisione di parecchi militari transalpini, Nitti si era trovato obbligato a legare le mani alle truppe tricolore acquartierate a Fiume per raffreddare l’ira dei francesi. Con un rovescio di medaglia, però: l’andata in bestia degli annessionisti fiumani, che per tutelarsi avevano cercato anche in Italia, specie tra gli ex combattenti, qualcuno disposto a riprendere le armi per scender in campo al loro fianco. Ed erano stati proprio questi volontari a comporre l’autocolonna che, partendo da Ronchi con il Vate in testa, era giunta a Fiume. Naturalmente, l’arrivo di D’Annunzio aveva complicato molto la situazione della città. Anche perché il Poeta - dopo aver spiegato una bandiera con la quale in passato era stata avvolta la bara d’una Medaglia d’Oro e chiesto alla folla di giurare solennemente su quanto lui aveva in mano l’unione del popolo di Fiume all’Italia - aveva assunto il comando militare di Fiume e relegato nelle caserme il corpo interalleato, mettendosi così in guerra non solo con Roma, ma con tutte le nazioni riunite a Versailles. Però, quell’azzardo aveva pagato quanto un pugno in cielo. Le Potenze avverse all’impresa dannunziana avevano, infatti, deciso di ritirare da Fiume le loro truppe e le loro navi, lasciando così il cerino nelle dita di Nitti, il quale aveva pertanto calato l’unica carta che poteva giocare: pronunciarsi alla Camera contro la sedizione militare messa in piedi dal Vate. Del resto, che altra chance aveva in mano? Nessuna. L’Italia era ricattata dai suoi alleati nella Grande Guerra: o D’Annunzio viene lasciato libero d’impiccarsi con la sua stessa corda o salta il robusto prestito già concordato per consentire l’acquisto del grano, del carbone, ecc. occorrente alla popolazione italiana. In più, il governo succeduto a Orlando era nato per far cessare le agitazioni relative a tutti i temi caldi della vita nazionale (da quello sindacale a quello della sistemazione dei reduci) e non poteva certo tollerare situazioni fomentanti scontri, essendo molti gli italiani solidali con il Vate. Infine, non solo l’architrave dell’autocolonna partita da Ronchi erano stati circa 300 Granatieri che avevano disertato, ma quando il Vate era giunto a pochi chilometri dal confine tra l’Italia e Fiume il comandante d’un reparto di Arditi, lì presente con l’ordine di fermare la sedizione dannunziana “a ogni costo”, aveva gridato al Poeta “Dal Carso al mare gli Arditi sono con voi!” e con i suoi uomini s’era aggregato a D’Annunzio. Dopodiché, molti casi simili erano seguiti. Come pure era poi accaduto che tantissimi militari in servizio andassero via via a Fiume per irrobustire i “legionari”. Talvolta, portandosi addietro persino le masserizie e, nel caso fossero uomini della Regia Marina, addirittura le navi. Insomma, solo sulla carta Nitti avrebbe potuto reagire come aveva poi fatto Giolitti circa 15 mesi dopo. Di conseguenza, nell’autunno 1919 era iniziato uno stallo destinato a durare oltre un anno e a essere tollerato da Washington, Parigi e Londra, sia pur obtorto collo essendo chiaro quanto le sanzioni deliberate dall’Italia a danno di Fiume fossero sotto sotto mollemente applicate.
 
Gli Uscocchi dannunziani

Tanto mollemente da finire talvolta in farsa. Come nel caso del “Cogne”. Una vicenda collegata alle esigenze di vettovagliamento del contado fiumano. Infatti, per dar modo alla popolazione e ai “legionari” di che tirare avanti, D’Annunzio s’era messo a chieder soldi a destra e a manca, ma’s’era anche avvalso d’un sistema più sbrigativo: gli “uscocchi”. Ovvero, aveva assegnato a un gruppo di “legionari” – battezzato come chi nel XVI secolo in Adriatico faceva della pirateria per combattere la presenza turca nei Balcani – il compito di compiere dei sequestri navali. E, proprio grazie a uno dei tanti colpi di mano attuati dagli uscocchi, nel settembre del ’19 da Catania era giunto a Fiume il piroscafo “Cogne”. Il suo riscatto - scafo e carico (molto prezioso: sete, automobili, ecc.) – era stato proposto al Governo italiano, ma Nitti aveva rifiutato d’imbarcarsi in un’esplicita trattativa. Del resto, che avrebbe potuto fare? L’avventura dannunziana era sì ben vista in Italia tanto dai nazionalisti, quanto da chi arbitrariamente la interpretava come il prodromo d’una rivoluzione proletaria, ma l’avvio d’una negoziazione sarebbe equivalso a dire che Roma finanziava dei sediziosi. Il che avrebbe portato alle stelle l’irritazione dei francesi, dei britannici, ecc. Così, il Vate aveva posto il bastimento in vendita. Al che Nitti aveva reagito mettendo in guardia gli eventuali compratori che l’acquisto li avrebbe fatti incorrere nel reato di ricettazione. Che fare, si era chiesto il Poeta, visto che per far campare i fiumani gli occorreva del denaro? Il deus ex machina era stato un patto imbastito sottobanco con il silenzioso placet di Palazzo Braschi da Borletti, un industriale lombardo vicinissimo tanto a D’Annunzio, quanto all’entourage governativo tramite il quale durante la Grande Guerra aveva goduto d’una corsia preferenziale nel settore delle forniture militari (un rilevante campo d’attività nell’ambito del suo vasto giro d’interessi economici). Quali erano stati i termini di quell’intesa? Tutti avrebbero chiuso un occhio e la nave sarebbe stata restituita al proprietario (ch’era l’Ansaldo, un’azienda legata mani e piedi al mondo politico) dietro un riscatto concordato in ben 12 milioni da portare a Fiume prima che quatto quatto il piroscafo partisse per l’Argentina. E, per esser certo che quei tanti soldi giungessero senza problemi a destino, qualcuno – tanto in alto loco, quanto privo di sense of humour - aveva stabilito che l’incaricato della consegna della somma viaggiasse … scortato dai carabinieri! E così era stato. Dopodiché, gli Alleati avevano fatto buon viso a cattivo gioco e dei quattrini presto era rimasta solo una “ricevuta eroica” (il termine con il quale Borletti denominava fin dall’epoca della Grande Guerra le tante dichiarazioni rilasciategli da D’Annunzio per attestare d’aver percepito del denaro senza uno specifico impegno di restituzione).

Le “buone ragioni” di Gabriele D’Annunzio

Infine, c’erano le ragioni di D’Annunzio. La prima delle quali era la sua decisione d’entrare nell’arengo politico non più, come all’epoca della guerra di Libia, con poesie che asserivano il sopraggiungere d’un tempo di lotta e di conquista al quale gli italiani non potevano sottrarsi, ma mettendo i propri comportamenti al servizio dell'imperialismo adriatico. Cioè, dell’idea che l’Italia dovesse estendere parecchio la propria sfera d’interesse nei territori affacciati sull’Adriatico nordorientale. Per quale motivo? Di fatto, per beneficiare dell’allargamento in quell’area la propria d’influenza economico-politica. A parole, a ragione del richiamo esercitato dall’antica presenza di Roma imperiale in quei luoghi o, secondo il Vate, addirittura in forza della superiorità latina. Peraltro, quella dell'imperialismo adriatico era per le sue implicazioni internazionali una tesi tanto popolare, quanto scivolosa, essendo in pratica una benevola anticipazione del Lebensraum. Infatti, la pretesa italiana d’uno spazio vitale sulle coste dell’Istria, della Croazia e della Dalmazia settentrionale aveva determinato sia il fallimento delle trattative avviate da Roma all’inizio del ’15 con gli austroungarici per negoziare la prosecuzione della non belligeranza, sia l’inasprimento di Wilson a Versailles data l’incompatibilità di questo concetto con uno dei “Quattordici Punti” che secondo il Presidente americano, se rispettati, avrebbero assicurato la pace nel mondo. Sta di fatto che nel gennaio del ’19 D’Annunzio aveva pubblicato una “Lettera ai Dalmati” nella quale con fervore sosteneva l’italianità delle terre adriatiche che Wilson non era disposto ad attribuire al governo di Roma. E questa sua convinzione l’aveva ribadita in pubblico a Venezia nella ricorrenza di San Marco affidando immaginificamente alle onde dell’Adriatico il compito di far giungere a Fiume, a Zara, a Spalato, a Ragusa, ecc. il grido dalmatico di solidarietà ‘Ti con nu, nu con ti!’. Ma le belle parole non avevano saziato il suo interventismo. Cosi quella primavera s’era messo a studiare un colpo di mano su Spalato tramite l’utilizzo d’una Divisione d’assalto che si trovava a Venezia in attesa d’essere trasferita in Libia. Però, Badoglio – venuto a sapere del progetto – l’aveva dissuaso raccontandogli una fandonia: lui stesso era pronto a marciare su Lubiana con le sue cinque divisioni, se le trattative in corso a Versailles avessero prospettato risultati veramente lesivi per l’Italia. Naturalmente, sebbene Orlando in Francia sulla questione adriatica non riuscisse a cavare un ragno dal buco, Badoglio non s’era mosso e il Poeta, essendo nel frattempo partita la Divisione d’assalto per la sua destinazione nordafricana, aveva ripreso la sua vita veneziana dedicandosi all’amante del momento. Poi però fin all’invitto “eroe del cielo e del mare” era giunta la richiesta degli irredentisti fiumani di consacrarsi “al legame che doveva unire in eterno Fiume all’Italia”. Al momento, D’Annunzio non aveva dato gran peso a quell’appello, giacché l’intera situazione sociale e politica della nazione era in subbuglio.

L’Italia del dopoguerra

L’Italia era stata sì uno dei vincitori della Grande Guerra, ma al temine del conflitto si trovava pressoché nello stesso stato economico e sociale di chi l’aveva perso. Certo, neppure la Francia e la Gran Bretagna se la passavano bene, ma gli italiani, pur avendo anch’essi dato un altissimo tributo di morti e feriti, in maggioranza stavano ben peggio che nel ’14. Erano divenuti gente travagliata dall’inflazione, da un enorme debito nazionale, dall’odio per chi si era approfittato del giro di denaro generato dalle forniture militari, da un’affannosa riconversione degli impianti adatti a un’economia di pace e da un pesantissimo scontro sociale che si esprimeva con gli scioperi attuati dai disoccupati, dai lavoratori delle campagne e dell’industria, oltre che dalla gente a reddito fisso disarmata contro l’inflazione. Per contro questi scioperi – spesso abbinati a violenze e saccheggi - creavano panico sia in chi vedeva messi a rischio i propri interessi, sia in chi semplicemente aborriva il disordine o temeva che i tanti italiani suggestionati dalla rivoluzione russa volessero con quelle manifestazioni di dissenso non solo conseguire dei miglioramenti economici, ma anche preparare il terreno per un drastico ribaltamento politico. In più, a riscaldare ulteriormente la scena provvedeva la pesante contrapposizione in atto tra chi (come i socialisti a motivo del loro radicato neutralismo, accantonato solo nei giorni di Caporetto) aveva una tal ripulsa verso coloro che erano andati al fronte da spingerlo a ingiuriare pubblicamente gli ex combattenti e chi, sul versante opposto, non tollerava alcuna messa in berlina della dedizione alla patria o, addirittura, vedeva nei sacrifici imposti da oltre quaranta mesi di conflitto il titolo per far passare sotto il Tricolore qualsiasi territorio abitato da gente parlante in prevalenza la lingua italiana e vogliosa d’andare a far parte del regno dei Savoia. Tutto questo spingeva molti ad auspicare che a sostituire Orlando fosse una figura carismatica e risoluta quale appariva il Poeta. Pertanto, il Vate pensava d’avere buone chance per subentrare al “Presidente della Vittoria”. Del resto, Orlando a Versailles aveva risposto “D’Annunzio” a David Lloyd George, quando quest’ultimo - percepito che il premier italiano stava su una poltrona scricchiolante - gli aveva chiesto chi avrebbe potuto prendere il suo posto a Roma. Orlando in quell’occasione aveva sbagliato, ma non era stato granché nel torto, giacché il Poeta quasi corum populi era ormai visto, oltre che come un autore da ammirare e avente alle spalle una “vita inimitabile”, anche quale un possibile pivot della scena politica italiana del dopoguerra. In effetti, il Re in quell’occasione lo aveva consultato, ma la palma poi l’aveva conferita a Nitti. Una scelta che aveva ferito il Vate, tanto che in un articolo intitolato niente po’ po’ di meno che “Il comando passa al popolo” tuonò “se ci sarà bisogno di suonar la carica, io la suonerò”.

D’Annunzio suona la carica

Pochi mesi dopo D’Annunzio la carica l’aveva suonata davvero mettendosi, in divisa di tenente colonnello dei Lancieri di Novara, alla testa dell’autocolonna avente quale destinazione il Quarnaro e scrivendo a Mussolini, il cui giornale gli faceva da cassa di risonanza, un sintetico “Domattina prenderò Fiume con le armi”. Come detto, non era andata propriamente così. Anche perché da Ronchi era partita un’autocolonna tanto decisa a veder cousta quel che cousta Fiume inserita nel Regno d’Italia, quanto abborracciata. Infatti, solo alla fine d’agosto D’Annunzio, mentre a Venezia era alle prese con vari creditori e con la pianista costituente la sua più recente passione amorosa, si era dichiarato disposto a prender “al momento opportuno” la guida degli irredentisti intenzionati, se del caso con le armi, a portare Fiume sotto il Tricolore: i “legionari”. Non si trattava di molta gente, però ben vista dai nazionalisti, dai futuristi e dagli italiani messi in allarme dal successo riscosso a luglio a Torino dal primo grande sciopero di solidarietà con la Rivoluzione d’Ottobre. Ma anche di persone che per andare al sodo erano bisognose d’avere alla propria testa una figura così carismatica da rendere difficoltoso al governo intervenire in misura pesante contro di loro appena fosse emerso che il Quarnaro, in barba al disaccordo vigente a Versailles, stava per cadere nelle mani degli irredentisti. Però questo momento opportuno era maturato rapidamente a dispetto del ben maggior interesse che il Vate stava mostrando verso la pianista che verso l’organizzazione della sedizione militare. Era, infatti, successo che sul Carso fosse acquartierata pro tempore una brigata di Granatieri proveniente da Fiume, da dove era stata rimossa perché colpevole d’essersi immischiata partigianamente negli scontri tra gli irredentisti cittadini. Tuttavia, questi uomini erano sì dispostissimi a marciare sotto l’egida di D’Annunzio, ma andavano impiegati prima che ricevessero l’ordine di trasferirsi altrove. Un disco verde che poteva giungere in qualsiasi momento. Eppure, il Poeta non era precipitoso nel prender l’arme; non sapeva sfuggire alla voluttà che gli procurava nei momenti clou della sua esistenza l’aggrovigliarsi di gesti decisivi per l’impronta che voleva dare alla sua “vita inimitabile” con la presenza al suo fianco di marchese, governanti compiacenti, dive, prostitute, ecc. Così, nonostante la necessità d’agire d’urgenza, erano occorsi dei giorni per stanarlo dalla condivisione con la pianista delle mondanità veneziane. Quindi, tirato per i capelli, solo l’11 mattina si era messo in marcia con i “legionari” presenti a Ronchi: un po’ meno di trecento Granatieri, qualche bersagliere e un po’ di dannunziani accaniti di varia origine. Sulla carta, una quantità di combattenti di certo insufficiente per superare i vari posti di blocco affidati alle truppe mobilitate da Nitti per impedire, anche ricorrendo alle armi, l’avanzata di quell’autocolonna. Nei fatti, quel viaggio da Ronchi a Fiume era stato pressoché una marcia trionfale, poiché – come già detto - via via che l’autocolonna avanzava molti militari, anziché sparare sui “legionari”, avevano cambiato casacca, talché il Vate era arrivato nei pressi della barriera cittadina avendo con sé più o meno un migliaio di persone: disertori, ex-interventisti, avventurieri, nazionalisti, sindacalisti-rivoluzionari e via dicendo. A quel punto, a dare l’alt a tutta quella gente aveva provato il generale Pittaluga: il capo del corpo interalleato di stanza a Fiume e, dunque, anche il più alto rappresentante del Regno d’Italia in quella città. Tuttavia, i suoi uomini non avevano suonato “El Deguello”. Anzi, la scena grazie a un coup de téâtre di D’Annunzio, era rapidamente passata dal dramma al melodramma: il Poeta si era parato davanti al generale e lo aveva invitato a fargli sparare addosso. Un ordine che Pittaluga si era guardato bene di dare, preferendo correre in città (qualcuno sostiene dopo aver gridato “Viva Fiume italiana”) sia per informare Roma che a suo giudizio le forze delle quali disponeva ormai erano inadeguate per opporsi al Vate, sia per consegnare in caserma tutti i soldati (italiani, francesi, ecc.) sottoposti ai suoi ordini, onde evitare che vi fossero incidenti tra le sue truppe e i nuovi arrivati. Dopodiché, a mezzogiorno del 12 settembre i “legionari” senza colpo ferire erano giunti a Fiume, mandando in tripudio la componente italiana della città, la quale tra l’altro s’era messa a cercare di convincere i mezzi della Regia Marina ormeggiati alle banchine a non fare come le unità delle flotte alleate, che prudentemente stavano prendendo il largo. Nondimeno, solo la corazzata “Dante Alighieri” e qualche nave minore erano rimaste in porto, argomentando di non poter salpare non avendo l’equipaggio al completo, giacché una parte dei marinai era scesa a terra per fraternizzare con la popolazione tumultuante.  Comunque, in seguito gli uomini in divisa – anche figure di spicco per il grado o per l’alta popolarità, come “l’affondatore per eccellenza: Luigi Rizzo, compagno del Vate nella beffa di Buccari e l’uomo che in due altre azioni distinte aveva mandato a fondo un paio di corazzate austriache – avevano preso a arrivare a Fiume con l’intensità con cui le mosche s’avvicinano al miele.

Il “Persia” a Fiume

D’altronde, la situazione era fumosa, cosicché di fatto restava molto incerta la linea di confine tra l’autorità del governo italiano, che de jure non aveva giurisdizione sulla città, e quella dei “legionari. In più, Fiume pareva stare per essere il punto di partenza d’un pronunciamento militare coinvolgente l’intera nazione. Però, D’annunzio aveva anche un altro motivo per guardare malamente il Trattato di Rapallo; era partito da Ronchi per dare inizio con spirito nazionalistico a un’avventura che, oltre a concludersi con l’annessione all’Italia, avrebbe potuto essere la prova generale della conquista del potere in tutto il Paese, ma a poco a poco in lui aveva preso corpo un’altra intenzione: mutare il contenuto ideale della presenza dei “legionari” a Fiume. In che senso? Realizzando qualcosa di storicamente più rilevante d’un putsch. Vale a dire, non portare a termine sic et simpliciter un appropriamento con le armi del potere, ma avviare un moto rivoluzionario di vasta portata. Qualcosa di ben più eclatante di quanto a un certo punto gli era venuto in mente quale alternativa: utilizzare la propria popolarità internazionale per marciare su Zagabria alla testa dei separatisti croati, onde esaltare i diritti delle nazionalità. Che cosa aveva messo in moto nel Vate l‘idea di cambiar rotta? L’attracco a Fiume all’inizio dell’autunno del ’19 del “Persia”: un piroscafo con a bordo 13 tonnellate d'armi e munizioni destinate ai controrivoluzionari russi. Ovvero, un’azione di filibusteria attuata a Trieste non da gli uscocchi dannunziani, ma da un pugno di ardimentosi condotto da Giuseppe Giulietti, un quarantenne romagnolo di mente viva e dall’animo oscillante tra l’anarchia e il sindacalismo rivoluzionario, che ancor prima della presa del Palazzo d’Inverno aveva installato buoni rapporti con i bolscevichi. E facendolo da una posizione di forza. Infatti, questo capitano marittimo era il capo carismatico della Federazione marinara: il sindacato dei naviganti, i quali all’epoca costituivano una categoria di gran peso nel mondo italiano del lavoro. Il dirottamento del “Persia” aveva avuto un duplice effetto. Innanzitutto, quello d’alimentare la simpatia della sinistra verso l’impresa fiumana, giacché quel colpo di mano portava acqua tanto al mulino di D’Annunzio, quanto a quello di Lenin, visto che sottraeva rifornimenti all’Armata Bianca. Secondariamente, la presenza del “Persia” a Fiume aveva fatto sì che in breve tempo Giulietti non solo stringesse un rapporto molto cordiale con il Poeta, ma che pure lo convincesse a far abbandonare alla sua impresa l’originaria impronta strettamente nazionalista per assumere invece una connotazione rivoluzionaria. Perché sorprendersi? Giulietti, sebbene ancor giovane, era un uomo avente un passato notevole alle spalle. Il suo impegno nella tutela sindacale dei marittimi aveva permesso al personale di bordo di raggiungere sia notevoli vantaggi economici, sia una marcata autonomia dal partito socialista. Infatti, Giulietti di quest’ultimo non aveva condiviso negli anni della belle époque l’incerto orientamento, né allo scoppio della Grande Guerra il neutralismo, giacché lui - al pari di altre figure legate al cosiddetto sindacalismo rivoluzionario - considerava quel conflitto, più che l’occasione per ridimensionare l’imperialismo austro-tedesco, un mezzo per sconfiggere il capitalismo e facilitare l’avvento d’una società socialista. Di conseguenza, Giulietti al momento della fondazione de “Il Popolo d’Italia” non aveva fatto mancare a Mussolini il sostegno economico della sua organizzazione sindacale ed era partito volontario. Indossando la divisa di ufficiale della Regia Marina aveva svolto un buon servizio sia in mare, sia a terra, poiché da Roma su incarico governativo aveva controllato efficacemente il fenomeno degli imboscamenti di navi. Poi nel dopoguerra, sull’onda della popolarità ottenuta sul fronte sindacale (tra l’altro aveva messo in piedi l’innovazione d’una cooperativa di marittimi volta all’esercizio della navigazione beneficiante di sovvenzioni statali) e con il dirottamento del “Persia” era stato eletto, quale socialista indipendente, deputato nelle elezioni politiche tenute nel novembre 1919, i cui risultati avevano fatto traballare Nitti, senza però metterlo al tappeto.


Giulietti
Il sindacalismo rivoluzionario

Quale era il tipo di rinnovamento sociale auspicato da Giulietti? Quello immaginato dal sindacalismo rivoluzionario: una visione politica nata in Francia (ma ben accolta all’inizio del XX secolo in molti paesi, tra cui l’Italia), che assegna al sindacato, invece che al partito socialista, il compito di guidare lo scardinamento della società capitalista. Attraverso quale strumento? L’uso sistematico e violento dello sciopero, affinché il susseguirsi di agitazioni culmini con in un’insurrezione attuata tramite uno sciopero generale. Per giungere alla conquista dei cardini dello Stato? Si, ma dando un nuovo assetto del potere. Ovvero, ponendo quale motore dello Stato l’autogoverno operaio. Cioè i sindacati di lavoro e di settore, anziché il Parlamento, giacché la democrazia parlamentare toglie energie al proletariato. Addirittura, lo tiene in uno stato di soggezione permanente che va a tutto vantaggio del capitalismo, visto che nelle sue mani stanno i sistemi di persuasione e di produzione di massa. In Italia, il sindacalismo rivoluzionario aveva avuto successo in taluni settori produttivi e presso alcune Camere del lavoro, ma - in quanto lontano dal pensiero marxista - a prezzo di duri scontri con i socialisti. Tanto che nel 1907 gli esponenti della fazione radical sindacalista s’erano staccati dal PSI per avviare nel mondo operaio una forte attività di proselitismo. Come tutte le minoranze, De Ambris, Corridoni, ecc. erano convinti che la società può essere dominata da nuclei capaci di utilizzare sapientemente i principi della sociologia e della psicologia e, in effetti, il socialismo rivoluzionario aveva collezionato dei successi, culminati nella buona riuscita nel ’13 d’uno sciopero dei metalmeccanici organizzato contro le direttive espresse da partito socialista. S’era però trattato d’un canto del cigno, poiché l’anno dopo la visione rivoluzionaria era andata in frantumi con il fallimento del moto a carattere insurrezionale (conosciuto come “settimana rossa”) messo in piedi quale risposta alla repressione governativa delle manifestazioni antimilitariste indette congiuntamente dalle forze di sinistra. Quale era stata la causa di quel fallimento? Il ritorno al lavoro dopo solo due giorni di agitazioni voluto dai socialisti per evitare che la piazza dovesse vedersela con l’intervento massiccio dell’esercito richiesto dalle forze più conservatrici. E quale era stata la conseguenza di quel fallimento tra i promotori della “settimana rossa”? Una riconsiderazione delle loro tesi che aveva portato a un duplice effetto: l’accantonamento, quantomeno pro tempore, del progetto insurrezionale e un'evoluzione teorica sfociata, a seguito del deflagrare della Grande Guerra, nell'interventismo rivoluzionario: l’idea che le spinte rivoluzionarie del popolo italiano avrebbero potuto trovare nel conflitto il loro il catalizzatore. Un’idea facente a pugni con il neutralismo dei socialisti, anche se abbracciata da  Mussolini – durante la belle époque vicinissimo al sindacalismo rivoluzionario - e da lui spiattellata su “Avanti!”, del quale era direttore. Come mai questo salto della quaglia? Perché i fautori del sindacalismo rivoluzionario si consideravano una élite e, in quanto tali, s’erano accostati ai futuristi, pure essi pieni di elitarismo, oltre che sostenitori dello scontro fisico. E questo legame – non a caso divenuto molto forte al tempo della guerra di Libia - aveva portato a una comune riconsiderazione del concetto di idea nazionale, facendolo evolvere dalla visione conservatrice-patriottarda del Risorgimento a quella identificabile nell’imprescindibile necessità del riscatto nel caso d’un popolo giovane e pieno di energie come quello italiano, se apoditticamente ritenuto in condizione di poter avanzare precise richieste in ambito internazionale. Donde, l’enfatizzazione del mito pascoliano della “grande proletaria” che sfida eroicamente le potenze imperialiste. Insomma, Giulietti a Fiume stava come il cacio sui maccheroni. Tuttavia, D’Annunzio, non aveva mai voluto che con il suo imprimatur i progetti di rinnovamento sociale vagheggiati da Giulietti fossero dilatati a livello nazionale.

Il niet a Errico Malatesta

Infatti, il Poeta – sia pur dopo avere un po' esitato – aveva declinato la propria adesione a quanto nel gennaio 1920 Giulietti gli aveva proposto: far marciare i “legionari” e gli iscritti alla Federazione marinara lungo il percorso Fiume-Triete-Firenze per poi da lì andare all’assalto di Roma con a capo l’anarchico Errico Malatesta, che da poco - con l’aiuto di Giulietti - era rientrato in Italia per riunire anarchici e comunisti allo scopo di trasformare le robuste agitazioni sindacali in atto in tutta l’Italia in un’autentica azione sovversiva. Un niet, quello di D’annunzio ch’era motivato un po’ dalla comprensibile reticenza del Poeta a cedere a un altro la leadership di un’impresa nata con il suo marchio e un po’ – ma soprattutto – dall’avversione del Vate verso l’intenso ricorso alla violenza praticato tanto dagli anarchici, quanto dai comunisti. Comunque, la rivolta sognata da Giulietti e Malatesta non era stata mai tentata poiché priva dell’indispensabile placet socialista, a causa delle profonde divisioni presenti all'interno del PSI circa la possibilità di giungere alla conquista del potere tramite un’insurrezione. Del resto, sarebbe stata una rivolta strampalata. Infatti, contro di essa si era scagliato anche Mussolini, sebbene all’inizio del ’20 il suo movimento fosse ancora improntato a un generico operaismo e Giulietti non gli facesse mancare il suo sostegno. Invece, il Vate aveva seguito il consiglio di Giulietti quando costui gli aveva proposto d’ingaggiare Alceste De Ambris, un lunigiano di famiglia benestante che - affrontando esperienze durissime - aveva dedicato tutto sé stesso al sindacalismo rivoluzionario. Tornato dalla Grande Guerra, alla quale aveva partecipato come volontario, De Ambris a Milano - contando sulla sua grandissima capacità organizzativa - aveva provato a ricreare un sindacato autonomo dal partito socialista, ma – a dispetto dell’impegno profuso - senza riuscirci, giacché il mondo del lavoro in quel periodo era affascinato dal successo ottenuto in Russia dai bolscevichi e quindi molto ben disposto verso il PSI, tanto più che alla sua guida stava la corrente massimalista, confusa finché si vuole sul che fare, ma indisponibile a formulare una condanna su Lenin. Fatto sta che nel dicembre del 1919 De Ambris era andato a rivestire la carica di capo di gabinetto di D’Annunzio, un ruolo rimasto vacante poiché chi l’aveva occupato prima – l’avvocato Giuriati – s’era dimesso, non condividendo la decisione del Vate di non accettare l’esito del referendum tramite il quale la maggioranza dei fiumani aveva accolto il modus vivendi propostole da Roma per salvare pro tempore capra e cavoli.

L’Italia preda del “Biennio Rosso”

È poco plausibile che D’Annunzio avesse ingaggiato De Ambris per cattivarsi la simpatia e l'appoggio delle sinistre, onde impensierire il governo italiano fino a costringerlo a sciogliere il nodo. Il Poeta, aveva da poco sbattuto la porta in faccia a Nitti, dicendo sfrontatamente niet al modus vivendi. In più, l’Italia era immersa nel cosiddetto Biennio Rosso, una fase di durissimi scontri sociali ch’erano giunti nell’estate del ’20 fino all’occupazione delle fabbriche. Quindi, “il Comandante” (come D’Annunzio si faceva chiamare a Fiume) non poteva certo pensare che la sua carta vincente con il Governo potesse essere la preoccupazione di Roma per l’appoggio che dai socialisti poteva venire ai fiumani. Il fatto era che nel 1919-20 una rivoluzione restava confinata nel campo dei progetti non realizzabili, se priva dell’appoggio della sinistra. Ma difficilmente un’insurrezione sarebbe andata a buon fine senza il concorso d’altre classi sociali. Il che portava a un’impasse, poiché la guerra aveva scavato un solco netto tra chi era stato neutralista e quelli che erano stati interventisti, né il proletariato italiano era ancora disposto a perdonare chi il conflitto l’aveva voluto. Anzi, addirittura beffeggiava gli ex combattenti. Comunque, De Ambris aveva conferito a D’Annunzio non solo un’ottima capacità lavorativa, ma anche la propria fiducia nell’idea che la "città olocausta" - come sarebbe stata, in seguito, immaginosamente definita Fiume - potesse rappresentare sia l'opportunità di dar vita a uno Stato avente quale motore l’autogoverno operaio, sia il presupposto necessario per estendere tale formula all'intera penisola. Donde, la convinzione di De Ambris che i termini della questione fiumana andavano rovesciati. Ovvero, tra non molto sarebbe stata l'Italia a dover essere annessa alla città olocausta e non viceversa.

La Carta del Carnaro

Così, De Ambris si era anche immerso nella scrittura d’un nuovo ordinamento istituzionale. E quando la notizia s’era sparsa in giro, in Italia molti avevano incominciarono a temere che, com’era negli intenti di Giulietti, a Fiume si stesse preparando un coup d’état d’impronta repubblicana. Comunque, mentre De Ambris curava le proprie funzioni istituzionali e era al lavoro per mettere nero su bianco l’ossatura di quella che sarebbe divenuta la Carta del Carnaro (visto che D’Annunzio volle utilizzare l’antico nome del territorio incuneato tra la penisola istriana e la riviera croata), il Vate non stava certo con le mani in mano, pur impegnandosi moltissimo nell’attività sessuale. Doveva seguire il governo della città, interessarsi della propaganda, ricevere i visitatori (la presenza di molti dei quali gli era utilissima o per i soldi o per l’imprimatur che gli portavano), risolvere le pratiche burocratiche, partecipare alle esercitazioni militari, dedicare tempo e attenzione alle relazioni di Fiume tanto con Roma, quanto con il versante internazionale e infine coltivare i rapporti con la popolazione fiumana, alla quale propiziava almeno un comizio al giorno. Tanto che molta gente bivaccava in piazza per essere sempre pronta a fargli da coro, mentre lui durante le sue esibizioni oratorie forgiava quell’armamentario di simboli e parole destinato a transitare poi nel fascismo, fino a caratterizzarlo. A partire dal grido “Alalà” (desunto dall’urlo guerresco dei greci antichi) per arrivare agli “immancabili destini”, al “mare nostrum” e via dicendo. Tra l’altro, ad affollare quelle piazze oltre ai fiumani c’erano i “legionari”, i quali giorno e notte circondavano il Comandante. È difficile dire quanta gente apparteneva alle fila del Vate, ma di sicuro la consistenza di quest’insieme di persone dagli iniziali circa mille uomini in breve s’era dilatata dismisura, essendosi precipitati a Fiume un gran numero di militari (dagli eroi di guerra ai ragazzi che avevano fatto appena in tempo a indossare la divisa), di idealisti, di gentildonne, di prostitute e di avventurieri d’ogni sesso, specie e nazionalità. Anzi le presenze straniere non scarseggiavano affatto. Addirittura, per un certo periodo la città aveva avuto quale responsabile dei suoi Affari Esteri un neppur trentenne musicologo e letterato belga, laureatosi in Italia e amico del Poeta: Léon Kochnitzky, il quale si proponeva di trasformare Fiume nella "Patria delle patrie" di tutti i popoli oppressi. Però, Kochnitzky – ch’era animato da idee rivoluzionarie di sinistra - voleva che il suo progetto avesse l’appoggio di Lenin e di tutta la sinistra europea, senza considerare che quest’obiettivo lo metteva in contrasto con le tendenze nazionalistiche caratterizzanti la maggioranza dei “legionari”. Prova ne è che nel luglio del ’20 Kochnitzky aveva dovuto rassegnare le dimissioni e abbandonare la città, lasciando a D’Annunzio quale contributo concreto della sua opera solo il denaro che gli aveva procurato tramite la vendita all’Egitto di 250.000 fucili provenienti da un atto di pirateria perpetrato dagli uscocchi. Talleyrand a Vienna di sicuro aveva fatto di meglio. Un altro personaggio emblematico del mondo che circondava il Vate era Guido Keller, un ricco scapigliato milanese che in guerra era stato un asso dell’aviazione, ma che dopo la firma del Trattato di Rapallo per protesta non aveva saputo far di meglio che sganciare goliardicamente un vaso di fiori sul Quirinale e un pitale zeppo di carote e rape sul tetto di Montecitorio. A Fiume con Giovanni Comisso (uno dei tanti giovani di sicuro avvenire andati a farsi le ossa a Fiume) aveva fondato un gruppo che, oltre a essere imbibito d’esoterismo e naturalismo, predicava e praticava tanto il nudismo, quanto l’amore di gruppo (formula includente anche l’accoppiamento tra partner maschili). Infatti, Keller usava esibirsi di frequente totalmente svestito e dormire seminudo su un albero assieme a un’aquila addestrata. Eppure, questo dandy - tra l’altro dedito al consumo di stupefacenti - aveva una responsabilità tutt’altro che trascurabile: assicurare i rifornimenti di materiali, viveri e mezzi. Impresa non facile di per sé; davvero impervia per un personaggio come lui, passato alle cronache in tema di approvvigionamenti più che altro per aver sfondato il fasciame di un aereo a causa del peso d’un maiale che lui, dopo averlo razziato, voleva imbarcare sul proprio velivolo. Insomma, in quella sorte di caravanserraglio ch’era divenuta Fiume si viveva con l’imagination au pouvoir.  E l’immaginazione, più che il calcolo politico, aveva spinto D’Annunzio a proclamare solennemente nell’agosto del ’20 lo “Stato Libero di Fiume”, aggiungendo che di esso stava preparando una costituzione avente il duplice compito di salvaguardare l’italianità del contado e garantire un governo democratico. Un annuncio che aveva messo, peraltro, in allarme il Consiglio Nazionale. Infatti, l’organo amministrativo cittadino (in mano a una élite espressa dai fiumani di lingua italiana) temeva che quanto anticipato dal Poeta potesse rappresentare alla fin fine un ostacolo all’annessione e il pericolo d’una dittatura dannunziana sine die. Preso atto di questo stormir di fronda, il Vate in un successivo discorso alla folla aveva maneggiato per strappare il consenso alla formazione del nuovo Stato. Un placet, giunto sotto una pioggia diluviante da un uditorio largamente composto da “legionari”, che lui aveva dichiarato che andava interpretato quale un vero e proprio plebiscito. Naturalmente, quel nuovo Stato era quanto è passato alla storia con il nome di Reggenza del Carnaro. Cioè una formula implicante che le funzioni del Capo dello stato siano assunte da una o più persone. Questa Reggenza, infatti, era concepita come una repubblica democratica al vertice della quale stava D’Annunzio, affiancato da un Consiglio, ma avente la facoltà di assumere i pieni poteri nei momenti d’estremo pericolo.
 
D’Annunzio dictator

Dunque, un dictator i cui comportamenti erano regolati da una Carta (ovvero una costituzione) scritta da De Ambris, anche se rielaborata dal Poeta nella forma, ma non nella sostanza. Un documento, peraltro, mai entrato in vigore, poiché varato quando l’impresa fiumana era pressoché agli sgoccioli, oltre che rimasto inapplicato nei circa cento giorni intercorsi tra la sua promulgazione e la conclusione dell’avventura fiumana. Dunque, una costituzione della quale si possono valutare solo astrattamente quei requisiti di solidità, utilità e bellezza posti da Vitruvio alla base della validità dei lavori architettonici. Presupposti che, però, sono pure la cartina di tornasole applicabile a tantissimi frutti del gel genio umano, incluse le costituzioni. Comunque, non potendo verificare la concretezza di questi presupposti, si può dire che la “Carta” stabiliva che Fiume diveniva una città-stato italiana. Cioè un territorio che pur facendo parte integrante dello Stato Italiano godeva d’un ampio grado di sovranità. Nel caso, la “Carta” definiva questa sovranità in misura talmente ampia da poter sia far assumere a Fiume una configurazione corporativa (ovvero la capacità di dotarsi, per quanto è possibile, d’un decentramento dei poteri dello Stato, onde assicurare l'armonica convivenza degli elementi che lo compongono, pur riconoscendo particolari diritti ai produttori), sia fornire ai propri abitanti la garanzia d’ottenere ciò che all’inizio del Novecento per moltissimi individui era una chimera: la totale parità dei sessi e la piena libertà di stampa, di parola, di pensiero e di religione. Insomma, nella “città del Sole“ declamata da D'Annunzio e ponderata da De Ambris uomini e donne erano tutti uguali e i diritti fondamentali (dignità, equità, ecc.), più che una necessità, una priorità assoluta. E tra questi trionfava l'autodeterminazione dei popoli, mentre al corporativismo (concepito in modo di assicurare a ciascun individuo la massima partecipazione al lavoro) spettava il compito sia di buttare alle ortiche capitalismo e il marxismo, sia di sostenere la realtà produttiva e socio-economica. Il tutto, grazie allo zampino di D’Annunzio, presentato nei termini linguistici dell’età comunale e con precisazioni quali che la ginnastica e il canto costituivano dei doveri sociali, che religione della città-stato dovevano essere Bellezza e Armonia. In pratica, a Fiume tutto doveva essere una festa, ma non nell'accezione del panem et circenses dell'Antica Roma, bensì come il virtuoso festeggiamento di un'ideale. La Carta i “legionari” – presumibilmente senza capirla - l’avevano approvata, non l’aveva approvata invece il Consiglio Nazionale. Comunque, il problema del suo varo era stato risolto rimettendo la decisione alla cittadinanza alla quale il Vate chiese – ovviamente ottenendolo - l’ok per acclamazione. Resta da chiedersi, D’Annunzio voleva realmente dare alla sua impresa l’esito rivoluzionario potenzialmente impressole – tramite la Carta – da De Ambris? Presumibilmente no, essendo in concreto un tale esito molto lontano dalla mentalità del Poeta, sebbene egli in talune occasioni avesse fatto intendere d’avere come programma un colpo di Stato militarista-anarchico. Di certo, la Carta aveva provocato una frattura profonda tra chi vedeva in Fiume l’inizio di un processo rivoluzionario che avrebbe potuto estendersi molto e chi viveva l’impresa solamente come una esasperazione patriottica e nazionalista, era ormai pressoché insanabile.

Vince chi sbaglia meno

Nel citato “La règle du jeu” si afferma anche che il mondo ha delle règles très rigoureuses e una di queste è che in genere vince chi sbaglia meno. E certamente in tutta la vicenda di Fiume a sbagliare di più fu D’Annunzio, che partì per quella che poi sarebbe divenuta la "città olocausta" convinto che il governo italiano, posto di fronte al fatto compiuto, avrebbe proclamato l’annessione di Fiume o si sarebbe dimesso. Invece, Nitti si comportò con il Vate come Roma con Annibale, dopo che questo - discese le Alpi - aveva sconfitto le legioni romane in ben quattro importanti battaglie principali. Cioè non cercando più lo scontro diretto, ma attuando una guerra di difensiva mirata al logoramento del nemico. Roma impiegò più d’un decennio prima di riuscire a costringere Annibale a tornare in Nord Africa. Al governo italiano – dal luglio del ’20 in mano a Giolitti – bastò invece poco più di un anno per porre D’Annunzio con le spalle al muro e per non lasciargli altra scelta che rientrare a Venezia, da dove il Poeta era partito per recarsi a Ronchi. Giolitti, rientrato a Palazzo Braschi, affrontò sia il problema dell’occupazione delle fabbriche, sia quello di Fiume. La risoluzione del primo diede luogo a una rapida ripresa dell’attività negli stabilimenti che per un po’ erano passati in mano agli operai. Viceversa per la risoluzione del secondo non bastò la firma del Trattato di Rapallo e la sua approvazione a fine novembre da parte della Camera. Bisognò anche sloggiare D’Annunzio e i suoi “legionari”. Al Poeta furono proposte delle dignitose formule di accordo, ma lui le respinse con proclami tracotanti: “Il sangue sta per essere versato. I morituri vi salutano …..” anche se a salutarlo furono invece alcuni dei militari che erano passati dalla sua parte, essendo stato nettamente comunicato che chi di loro non rientrava in Italia diveniva passibile della pena di morte. Quando nell’occasione del solstizio d’inverno Caviglia applicò in modo rigoroso il blocco della città tanto dalla terra quanto dal mare, il Vate - sebbene il direttore de “Il Popolo d’Italia” con sommo scorno del Poeta su quel giornale avesse difeso il Trattato di Rapallo - lanciò un estremo appello a Mussolini: “Sei tu pronto coi tuoi a invadere le Prefetture? ad assaltare le Questure?”. Non ebbe risposta. Del resto, alle costole del futuro Duce erano stati messi dei poliziotti, affinché metaforicamente avesse le mani legate. Poi Caviglia alla vigilia di Natale spedì delle truppe sul confine stabilito dal Poeta. Per tutta risposta, il Vate fece piovere su di esse dei volantini invitanti alla disobbedienza, ma la replica fu l’avvio delle azioni di fuoco. Comunque, la notte bloccò gli spari. Né ve ne furono il giorno successivo, avendo Caviglia optato per una tregua natalizia.

La resa dei conti

Solo a Santo Stefano l’attacco fu ripreso con l’ausilio della corazzata “Andrea Doria” che, approssimatasi alla riva, prima tirò contro il Palazzo del Governo (i cui calcinacci colpirono anche D’Annunzio) e poi, per far capire che Giolitti voleva definitivamente risolvere la questione, iniziò a sparare sull’intera città senza riguardo verso i civili. Il cannoneggiamento durò fin quando, sempre il 26, il Sindaco e il Delegato Apostolico convinsero D’Annunzio e l’intero Consiglio di Reggenza – cioè tutti i leader della rivolta contro Roma - a rassegnare le dimissioni en bloc. Una soluzione avente un duplice pregio. Il primo: lasciar trattare autonomamente la resa ai fiumani, la maggioranza dei quali era preoccupata degli effetti d’una resistenza a oltranza, oltre che ormai stufa dei quasi cinquecento giorni di clima da kermesse fatto calare sulla città dal Poeta e dai suoi “legionari”. Il secondo: offrire al Vate un escamotage per togliersi dal proscenio salvando la faccia. Eh, si. D’Annunzio fino ad allora aveva solennemente promesso nei suoi proclami e nei suoi discorsi di voler morire nel Quarnaro, affinché il suo cadavere restasse sempre tra Fiume e l’Italia. Dunque, la sua rinunzia a una morte monumentale andava giustificata. E che meglio c’era d’un passaggio in toto della palla ai fiumani per evitare che un suicidio o un proiettile inviato dalla tragicità del destino fosse necessario per non scalfire l’allure d’uomo prode che circondava il Vate? Fu viltà quella del Poeta? No. D’Annunzio penetrando in Buccari, volando su Vienna, affrontando dei duelli, ecc. aveva più volte rischiato la pelle. E sempre a muso duro. Piuttosto, quella di Santo Stefano fu una sua pragmatica presa d’atto che, contrariamente alle sue speranze, non esisteva una robusta schiera d’italiani pronta a sollevarsi per sostenere la rivoluzione da lui prospettata. Del resto, nell’autunno del ’20 era finito in bolla di sapone un piano insurrezionale avente l’intento di far marciare su Roma “legionari” e nazionalisti per imporre un regime capace di schiacciare politicamente la testa ai socialisti, la cui già non trascurabile forza in Parlamento era da molti vista addirittura con preoccupazione a motivo sia dei notevoli successi registrati dal PSI nelle elezioni amministrative da poco svoltesi, sia dell’impegno profuso dai rappresentanti di questo partito nel portare avanti le violente proteste espresse tanto dei disoccupati, quanto dei lavoratori delle campagne e dell’industria contro lo stato di quasi miseria in cui si trovavano queste categorie. Chi stava vicino a D’Annunzio i soldi necessari per la realizzazione del golpe li aveva trovati presso alcuni degli industriali che più erano rimasti sconvolti dalla diffusa occupazione delle fabbriche verificatasi nella precedente estate, ma il piano era abortito perché gli alti gradi delle forze armate, ancorché intrisi di nazionalismo e sconcertati dalle tensioni politiche in corso, si erano dichiarati indisponibili a fornire il sostegno dell’esercito. Un supporto peraltro indispensabile per il successo dell’impresa. Quindi, che senso aveva per D’Annunzio immolarsi con una morte ben configurabile in un melodramma dell’Ottocento, ma pur sempre per una causa persa? Pochissimo. Tanto poco che il Vate, mentre i negoziati andavano avanti, trovò il tempo per ordinare due dozzine di cravatte nere, un ornamento del collo che lui indossava sempre con piacere.
De profundis
Il 4 gennaio 1921 cominciarono le partenze dei “legionari”. Una volta ultimate, il 18 anche D’annunzio, altrettanto indisturbato, lasciò Fiume in auto per sistemarsi a Venezia. Volle però bollare come “Natale di sangue” il momento in cui l’aria della città era stata tagliata dai proiettili. Una frase a effetto, ma non veritiera, visto che la partita era stata chiusa senza un elevato tributo di morti e feriti e, soprattutto, che il 25 dicembre era stato un giorno di tregua. Del resto, il Poeta non fu veritiero neanche quando prima di partire dichiarò che non intendeva rinunciare alla lotta, pur essendo chiaro a chiunque che le cannonate e le fucilate fatte sparare da Giolitti equivalevano a una mannaia calata sul futuro politico del Vate. Infatti, il campo socialista non rientrava nel suo interesse e i fascisti – pur avendo avuto in testa all’origine un bel miscuglio di anarchia e di nichilismo – gli sbarrarono la via, mettendo i loro manganelli e le loro violenze a disposizione di chi chiedeva ordine o – come gli agrari e gli industriali – un netto ridimensionamento di quanto domandavano i socialisti e i comunisti in tema sia di lavoro nei campi e nelle fabbriche, sia di organizzazione sociale. Insomma, D’Annunzio scosse l’albero e Mussolini raccolse i frutti, sia pur pagando il prezzo di acconsentire a tutte le richieste del Poeta, anche se giustificate solo dall’immensa vanità del Comandante: la ristrutturazione del Vittoriale a carico dello Stato, la consegna dell’aereo con il quale il Vate aveva volato su Vienna e del Mas da lui utilizzato nella beffa di Buccari, la prua della nave “Puglia” e via enumerando. Oltre, naturalmente, l’elargizione di somme vertiginose, sia pur per percorsi contorti, come far strapagare da Mondadori i diritti per la pubblicazione dell’Opera Omnia. Il tutto, però, con un preciso rovescio di medaglia: l’introduzione nel Vittoriale di ben una ventina di persone di servizio aventi soprattutto il compito di tenere aperti occhi e orecchie per riferire. Insomma, un rovescio di medaglia equivalente a una sostanziale messa in gabbia del Vate.

REGGENZA DEL
                  CARNARO E D'ANNUNZIO



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I GRANDI VERI PREMI LETTERARI


da DL NEWS CULTURA

Opinioni, commenti, notizie a cura di Decio Lucano  19 aprile 2010

 

 

Premio giornalistico/letterario  CARLO MARINCOVICH  2009

Sezione cultura del mare

 

1° classificato: Decio Lucano  “ Quando le navi parlano…”  pubblicato su “DL Newsletter”

Premio: Mascalzone Latino – la ruota del timone del “ Farr 40 “ più volte Campione del Mondo, offerta da Vincenzo Onorato – Team Mascalzone Latino


Comincio da questo Premio, a me assegnato, la cronaca di uno straordinario evento nella sede del Circolo Ufficiali della Marina Militare a Roma il 15 aprile 2010: la prima edizione del Premio giornalistico/letterario, indetto da Aspronadi, l’associazione dei progettisti navali, per ricordare un grande giornalista, Carlo Marincovich, che per quasi cinquant’anni ha scritto e vissuto, di mare, di importanti regate e di motori dalle pagine di  Repubblica e su tante riviste.

Un uomo umanamente disponibile, professionalmente eccellente, uno sportivo amante delle sfide, un marinaio che con la sua persona e il suo lavoro, ha fatto conoscere il mare agli italiani, ha contribuito a  formare una coscienza marinara, aiutato la nascente  flotta nautica, la terza flotta, a svilupparsi tra normative necessarie (e sempre altalenanti) e la realizzazione di porticcioli diventati marina, ha appassionato e convinto i nostri potenziali skipper a competere con gli scafi stranieri (al di là della già consolidata presenza della nostra Marina Militare) nelle regate internazionali dove eravamo pressoché assenti.

Tutto questo è merito di Carlo Marincovich che personalmente ha vissuto le grandi esperienze di mare, le sfide tra le onde, motori e vela, e le gare della Formula uno di cui era un efficace cronista e narratore.

La moglie, la signora Patrizia Melani Marincovich, insieme a un gruppo di amici di Carlo, ha ideato un Premio per ricordarlo, per rendergli onore, una cosa che altri non hanno ancora fatto in un Paese che abbonda di premi e convegni, di targhe e di parlare parole e che diventi invece un punto di riferimento per la stampa e l’editoria di mare ?

Quale migliore soluzione per salutare Carlo che assegnare ai vincitori qualcosa che vive, oggetti, parti e componenti di imbarcazioni che hanno fatto la storia e la cronaca moderna del design e delle sfide per mare offerti da armatori, skipper e collezionisti?

Abbiamo già scritto che le navi o le piccole imbarcazioni hanno un’anima, questo spirito lo infondono i progettisti, i costruttori, gli armatori/marinai, coloro che ci vivono insieme e insieme partecipano alla vita della loro creatura fino alla demolizione.

Così è stato, gli uomini delle grandi sfide, i cultori del mare e delle competizioni, hanno risposto ognuno donando un pezzo dei loro gioielli, montato a trofeo, un oggetto che assume valore di simbolo ma anche di quella parte di scafo che vive nell’immaginario e nel metafisico, per i premiati. (DL)

La Giuria, presieduta da Ezio Mauro, direttore de “ la Repubblica “ e composta da Patrizia Melani Marincovich e dai Presidenti e Segretari generali dell’Associazione progettisti navali ha assegnato i trofei del Premio suddiviso in tre sezioni giornalistiche: navigazione a vela, navigazione a motore, cultura del mare.

 

Sezione navigazione a vela


1° classificato: Giuseppe Meroni “ Te lo do io il restauro” pubblicato su Arte Navale

Premio Luna Rossa - parte di winch in carbonio di ITA 45 vincitore della Louis Vuitton Cup 2000, offerto da Patrizio Bertelli - Team Luna Rossa

 

2° classificato: Vittorio di Sambuy “ La nascita CVC “ pubblicato su www.altomareblu.com

Premio Mistral Ita 25 – pinna del windsurf vincitore della medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sydney, offerto dalla campionessa Alessandra Sensini.

 

Sezione navigazione a motore

 

1° classificato: Corradino Corbò “ Il motoryacht che vorrei “ pubblicato su Nautica

Premio: Arcidiavolo – l’elica del primo scafo da corsa offshore a stabilire un record mondiale U.I.M. di velocità con trasmissione ad elica di superficie (1977; classe OP2; 67,69 nodi; pilota Giorgio Tornelli) offerta da Marco, Michele e Riccardo Tornelli.

 

2° classificato: Alfredo di Gennaro “ Energia pulita” apparso su Nautica.

Premio : Cadillac - una delle due eliche del catamarano offshore che detiene il record assoluto nella Viareggio-Bastia-Viareggio ( 20 agosto 1992; classe OP1; 92 nodi ; piloti: Domenico Achilli e Alberto Brombin) offerto da Lino Di Biase.

 

Sezione cultura del mare

 

1° classificato: Decio Lucano “Quando le navi parlano…” pubblicato su DL Newsletter

Premio Mascalzone Latino – la ruota del timone del Farr 40 più volte Campione del mondo, offerta da Vincenzo Onorato – Team Mascalzone Latino.

 

2° classificato Giovanni Panella “Una barca di nome Creuza de Ma“ pubblicato su Genova Liguria Blu Magazine.

Premio : Fila 1999 – scassa in titanio dell’albero maestro dello scafo vincitore della Around Alone, offerto da Giovanni Soldini.

 

Premio letterario 2009

 

1° classificato: Alberto Cavanna “ Da bosco e da riviera “ Rizzoli Editore

Premio S-cioppon – la forcola di prua dell’imbarcazione a remi con cui Silvana Soccol ha partecipato e concluso  (unica donna) tutte le prime  26 edizioni della Vogalonga  di Venezia, offerta da Silvana Soccol.

 

2° classificato: Valeria Serra “ Le parole del Mare “ Paolo Sorba Editore

Premio: Clan des Team – segmento dell’albero in carbonio del maxilibera vincitore  di quattro “ Cento Miglia del Garda “ offerto dal Circolo Velico Gargnano.

 

Premio speciale per l’infanzia

 

Federico Bini - Paolo Cardoni “ Piccolo marinaio dei tre oceani “ Gallucci Editore

Premio: il salvagente personale di Matteo Bernard, campione europeo Optimist 2008 e Velista dell’anno Audi under 25 ( premio Carlo Marincovich), offerto da Matteo Bernard.

 

Nel corso dell’evento è stato presentato un libro realizzato con i messaggi – ricordo arrivati sul blog per salutare Marincovich ed è stata citata la 2° edizione del Premio che per il 2010 verrà promossa da un prestigioso Comitato d’onore e con una nuova giuria composta da giornalisti, progettisti e uomini di mare.

Secondo Antonio Soccol,  uno degli ispiratori, il Premio potrebbe diventare il vero punto di riferimento della letteratura di mare e del giornalismo nautico che hanno rispetto e amore per la “ cultura del mare “.