I SETTECENTO ANNI
DEL GHIBELLIN FUGGIASCO
STORIA CRONACA E
ANALISI
di Tobia Costagliola
1265-1321 La vita breve e intensa del
Sommo Poeta Dante
2021: L’anno delle celebrazioni per i settecento anni
dalla morte 
Commemorazioni e manifestazioni a Ravenna e
dintorni
RAVENNA La città di
Ravenna, in special modo, e tutte le località che
ospitarono il “ghibellin fuggiasco” durante gli ultimi
tre anni della sua vita, non ha mai smesso, fin da
quella lontana notte tra il 13 e 14 settembre 1321
in cui avvenne il suo ”transitus”, di ricordare e
commemorare il Sommo Poeta. A partire dal 1302, anno in
cui fu condannato alla pena capitale, in contumacia,
Dante cominciò il suo ventennale girovagare per l’Italia
centro-settentrionale che lo portò a Verona, presso
Cangrande della Scala e poi in Emilia Romagna.
Dante, prima di arrivare a Ravenna, nel 1318,
aveva già instaurato solidi rapporti di amicizia con
membri eminenti della società ravennate durante i suoi
soggiorni a Bologna (Fiduccio Milotti, Guido Novello da
Polenta, i conti Guidi, Pietro Giardini, ecc). Fra i
molti approdi del «ghibellin fuggiasco» negli anni
dell’esilio, Ravenna non è solo l’ultimo, ma una meta
che Dante aveva lungamente preparato non solo per sé, ma
per riunire i membri della sua famiglia in un contesto
finalmente favorevole. Oltre al rapporto continuativo
con la città, lo dimostrano la familiarità con quel
territorio e, soprattutto, con la famiglia dei conti da
Polenta.
I rintocchi di una campana “ in aeterna
commemoratione”
Nel 1921, in occasione
delle celebrazioni del sesto centenario della morte del
Sommo Poeta, i Comuni italiani donarono alla citta di
Ravenna una campana che fu installata su una piccola
torre campanaria, costruita sul retro della sua tomba,
contigua al “Quadrarco di Braccioforte”. E’ da allora
che, ogni sera, all’imbrunire, da quel campanile, si
diffondono per la città, 13 rintocchi. Rintocchi che
ricordano la dipartita del poeta che avvenne nella
notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, e due
terzine del Purgatorio:
“ Era già l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more” ( Purgatorio canto
VIII, 1-6)
Le esposizioni di Sara Baldini
Tralasciando la miriade
di commentatori di Dante di ogni tempo, prendo lo spunto
da una delle usuali esposizioni di Sara Baldini, una
delle tante giovani e bravissime guide che trasmettono,
ogni giorno, con enfasi, passione e rinnovato
entusiasmo, la cultura dantesca nella città di
Ravenna. I tocchi di questa campana, ben familiari a
tutti i ravennati d’ogni estrazione sociale e culturale
e i versi sopra citati “sono un richiamo alla classica
condizione psicologica che attanaglia un qualsivoglia
viaggiatore (o navigante) al suono che indica la
Compieta, e cioè una stretta al cuore per la nostalgia
di casa e dei propri affetti. Questa malinconia viene
descritta da Dante nel corso del primo tramonto
purgatoriale, giunto nella valletta dei “principi
negligenti”.
Il riferimento è chiaramente quello alla
condizione di esule del poeta. Ma alla nostalgia
data dell’abbandono di quella che era la propria patria,
Firenze, si unisce la consapevolezza della grazia
futura, una volta che il cammino oltremondano vedrà il
proprio compimento. Sì perché in fondo il viaggio del
poeta attraverso i tre regni, non è altro che la
metafora del pellegrinaggio concepito come passaggio da
una condizione di esilio e di traviamento morale fino al
raggiungimento della patria celeste. Lo dimostra il
fatto che la definizione «novo peregrin» (v.4),
interpretata solitamente come un riferimento al
pellegrino neofita e non esperto di cammino, allude
piuttosto alla “renovatio” cui è connessa l’esperienza
del pellegrinaggio, inteso come itinerario penitenziale.
Non a caso l'immagine introduce l’ingresso di Dante nel
Purgatorio, regno di espiazione e quindi redenzione.
Non solo la campana del “disio”.
Le campane e la basilica di San Francesco.
«Nel 1921, il Comitato
Cattolico Dantesco fece realizzare 5 campane denominate:
Petrus, Maria, Benedictus, Margarita, Bona, tutte in
tono da “re bemolle grave” per onorare, in particolare,
il carattere sacro e solenne della chiesa di San
Francesco che ospitò i funerali del poeta. Il
Comitato chiese espressamente che le campane fossero
“campane di lutto, cupe, austere, profonde” così come
ancora oggi vengono riconosciute dai ravennati per le
loro qualità ” timbriche, musicali, antifonali” (anche
dopo i restauri e rifacimenti nel secondo dopoguerra).
Dante aveva celebrato S. Francesco, dando la parola a S.
Tommaso d'Aquino, nel Canto XI del Paradiso.
La tentata trafugazione della salma
I Francescani, ben
consapevoli di tutto questo, accolsero volentieri la
salma di Dante nel loro cimitero sul lato settentrionale
della basilica, addossando in seguito lo stesso
sarcofago marmoreo a quello che diventerà il lato di
occidente del loro secondo chiostro, per questo chiamato
Chiostro di Dante. Di qui sottrassero le ossa di Dante,
perforando il sarcofago stesso, quando, sotto il
pontificato di Leone X (dei Medici), i Fiorentini
minacciarono di fare incursione a Ravenna e trafugare il
corpo del poeta (anni 1513-1521). Fa onore a Dante, ma
anche ai Francescani, l'ultimo dei sei versi scolpiti
nel sarcofago: "Firenze gli fu madre di poco amore", più
lo amò Ravenna. […] Dante e la basilica di S. Francesco
sono un binomio inscindibile a Ravenna. Infatti, questa
basilica di S. Francesco è uno dei "teatri" mondiali in
cui Dante Alighieri è primo attore della storia e della
profezia. Qui, per promozione del Centro Ravennate
Relazioni Culturali, in tre anni, la Divina Commedia è
stata letta e commentata al popolo. Qui si celebra la
cosiddetta “Messa di Dante” la seconda domenica di
settembre; qui si commemora la morte di Dante con il
“Dantis Poetae Transitus” la sera del 13 settembre.
Accanto a questa basilica il P. Severino Ragazzini
fondava nel 1965 il Centro Dantesco (Biblioteca e
Museo), ancora oggi attivo ed impegnato nel far
conoscere la persona e il messaggio di Dante, secondo il
desiderio del fondatore: “volevo creare un Centro
Dantesco che mettesse a contatto con Dante vivo.
Insomma, volevo unire Sepolcro glorioso (con i resti
mortali dell'Alighieri) e Centro Dantesco con gli
scritti del Poeta che ancora lanciano messaggi
all'umanità. Così il Centro Dantesco avrebbe dato voce
ad un sepolcro.” […]». ( cfr.Don Giovanni Montanari e i
Frati Francescani)
Campane di lutto. Campane di guerra, campane di pace e di
commemorazione nella zona del silenzio
Tutto il complesso
dantesco o zona di Dante è ubicato nel centro storico di
Ravenna il cui fulcro principale è la tomba di Dante
(tempietto neoclassico costruito nel 1780-81
dall’architetto Camillo Morigia) il Quadrarco di
Braccioforte, la basilica di San Francesco, il museo
dantesco e i chiostri francescani. Tutti gli interventi
urbanistici eseguiti durante gli anni venti e trenta del
secolo scorso, hanno conferito a questa zona una
fisionomia talmente caratteristica ed originale da farle
acquisire l’appellativo di “Zona del silenzio” dove
riposa un concittadino tanto illustre e tanto amato.
Questa zona del silenzio, tuttavia, è
anche la zona della memoria scandita dal suono delle
campane che, per la loro origine, si prestano ad
interpretazioni ben diverse dal significato simbolico e
spirituale originario.
« […] La campana dei Comuni d’Italia,
mutando l’immagine medioevale dalla “squilla” di
guerra – che incitava all’azione in nome dell’unità e
della concordia - presentava un forte significato
nazionalistico sin dalla sua genesi:
forgiata dalla fusione di sei quintali di argento e
bronzo del nemico, al pari della corona d’alloro
saldata ai piedi del sepolcro di Dante (dono del
municipio e delle città fiumane, “formata da tante
foglie quante sono le provincie storiche del regno e le
città irredente), e dell’ampolla delle terre irredente,
realizzata con l’argento delle donne istriane. Di
qui l’appellativo (comune all’ampolla di Trieste e alla
lampada sepolcrale, che, voluta dalla Società Dantesca
italiana, arde ininterrottamente dal 13 settembre
del 1908), di campana votiva, risultato cioè di
un’operazione di sacralizzazione, di trasferimento di un
messaggio politico in una formula e ritualità religiosa.
Allo stesso modo le campane di San Francesco furono
realizzate fondendo, assieme alle campane storiche
precedenti, sette cannoni di bronzo impiegati nella
Grande Guerra (provenienti dal deposito di artiglieria
di Bologna e ceduti appositamente dal Governo) e - dato
ancora più clamoroso - i “frammenti di campane tolti al
nemico, sui quali si scorgevano chiaramente le cicatrici
lasciate dai proiettili che le infransero”. Durante la
prima Guerra Mondiale le campane vengono così investite
di un’ufficialità rafforzata dagli apparati epigrafici,
decorativi, celebrativi, divenendo il centro di
insospettabili strategie di comunicazione. […]»
(cfr.Comitato Ravennate della Società Dante Alighieri
per il settimo centenario, diretto da A. Cottignoli e
Emilio Pasquini, Bollettino dantesco del 5 sett. 2016).
Quadrarco di Braccioforte
Il “Quadrarco di
Braccioforte” si trova vicino alla tomba di Dante, sul
sito di un oratorio citato nel IX secolo dallo
storico ravennate Andrea Agnello e chiamato
“Braccioforte” a motivo di una antica leggenda secondo
la quale due fedeli avrebbero prestato giuramento
invocando il “braccio forte” di Cristo la cui immagine
era conservata in quel luogo. All’interno del
“Quadrarco” sono conservati, a destra dell’entrata, i
sarcofagi “Pignatta” e “Traversari” entrambi riferibili
ad un periodo tra il V e il VI secolo ma riutilizzati
successivamente per le sepolture di esponenti di
famiglie nobili ravennati, dalle quali prendono nome.
Altri tre sarcofagi, dalla decorazione più semplice,
sono presenti nel piccolo giardino accanto, dove sorge
un dosso verdeggiante che ricorda il luogo in cui furono
conservate le spoglie dantesche durante la seconda
guerra mondiale.
Le celebrazioni
La sera del 5 settembre
2020, con una visita a Ravenna del tutto riservata a
poche autorità, peraltro rigorosamente “bardate” con le
mascherine anti-covid, il presidente della Repubblica
Sergio Mattarella ha tenuto a battesimo le celebrazioni
per il settecentenario della morte di Dante Alighieri.
Ha “tagliato il nastro“ dell’appena restaurata tomba del
Poeta e partecipato al concerto, in piazza san
Francesco, seguito dalla lettura del canto XXXIII del
Paradiso da parte dell’attore Elio Germano. La piazza
era praticamente “blindata” per motivi di
sicurezza e dedicata solo alla presenza di
rappresentanti del Governo e delle istituzioni e pochi
invitati, fra cui i sindaci delle città di Firenze e
Verona. I cittadini ravennati hanno affollato invece la
platea allestita in piazza del Popolo con un grande
schermo per assistere alla cerimonia inaugurale in
diretta video.
Riporto, qui di seguito, uno stralcio del
programma delle manifestazioni 2020-2021 annunciato dal
sindaco di Ravenna Michele De Pascale.
« […] In tutta Italia, questo anno vedrà
una ricchezza incredibile di eventi e celebrazioni, per
noi in particolare, un nuovo Museo Dantesco, la nascita
di Casa Dante, con un nuova e storica collaborazione con
la Galleria degli Uffizi, il completamento della
Commedia di Ravenna Festival e del Teatro delle Albe che
hanno portato in scena in questi anni più di mille
cittadini-attori, un fatto unico e irripetibile, e poi
eventi espositivi di primissimo piano in rete con quanto
avverrà in tutto il territorio nazionale, poesia,
letteratura, danza musica, mosaico; non ci sarà arte che
nel prossimo anno non si cimenterà con Dante.
Arriveranno a Ravenna anche i più
prestigiosi studiosi di Dante del pianeta grazie
all’Università di Bologna che dopo aver invitato,
infruttuosamente, Dante presso la sua sede tramite
Giovanni del Virgilio, nel 1319, ha ben pensato, circa
650 anni dopo, di raggiungere il Poeta qui a Ravenna con
il suo Campus.
Avremo anche il grande onore, insieme
all’Arcivescovo Ghizzoni, di essere ricevuti, il
prossimo 10 di Ottobre, da Papa Francesco, che apporrà
la sua benedizione alla Croce che Paolo VI nel settimo
centenario della nascita di Dante donò alla città per la
Tomba del Poeta, in occasione del suo Altissimi Cantus,
tutt’ora il più rilevante tributo della Chiesa Cattolica
al poeta della cristianità.
Chiuderemo fra dodici mesi insieme alle
città sorelle nell’amore per Dante, Firenze e Verona,
con uno straordinario concerto del più grande maestro ed
artista italiano del nostro tempo, il Maestro Riccardo
Muti, a cui siamo riconoscenti, oltre che per la sua
opera straordinaria, per il continuo monito a difesa
della cultura italiana.
Qual è quindi la via giusta per onorare
Dante a 700 anni dalla sua morte? Se lo chiese anche
Benedetto Croce un secolo fa, in occasione del sesto
centenario, e proprio da Ravenna, ci ha indicato una via
che risulta quanto mai attuale anche oggi:
La conclusione, insomma, è che il più alto
e vero modo di onorare Dante è anche il più semplice:
leggerlo e rileggerlo, cantarlo e ricantarlo, tra noi e
noi, per la nostra letizia, per il nostro spirituale
elevamento, per quell’interiore educazione che ci tocca
fare e rifare e restaurare ogni giorno, se vogliamo
“seguir virtute e canoscenza”, se vogliamo vivere non da
bruti, ma da uomini. E da donne. Viva Dante, Evviva
l’Italia!»
Altre manifestazioni
Sabato, 3 ottobre 2020,
il presidente Sergio Mattarella ha inaugurato, a Roma,
nella palazzina gregoriana del Palazzo del Quirinale, la
mostra fotografica “Dante 700” realizzata da Massimo
Sestini, fotoreporter di fama internazionale. Un
racconto fotografico che parte da Firenze, città natale
di Dante, a Ravenna, dove sono conservate le sue
spoglie, passando per la sorgente dell'Arno sul Monte
Falterona. Ma anche Venezia, Roma, Verona e Poppi, per
scoprire – come in un vero reportage – quanto il volto
del poeta continui ad accompagnare le nostre vite.
Manifestazioni significative sono state programmate, non
solo a Ravenna, ma anche a Verona, Firenze, nel
casentinese (Arezzo), Forli.
Curiosità
Tra le molteplici
iniziative culturali dei frati francescani che, da
secoli, custodiscono le spoglie di Dante, è notevole il
“video-mapping sull’abside di San Francesco che
costituisce una “catechesi per immagini”: si tratta di
proiezioni animate sul Paradiso A firmare l’opera
è stato un confratello del convento di Padova: l’idea è
raccontare in immagini l’incontro di Dante con San
Francesco, San Domenico e San Pier Damiani e la
conclusione della Commedia nella quale il Poeta arriva a
vedereDio. Significativa ed originale è stato l’addobbo
natalizio del centro storico di Ravenna, ove, ancora
oggi, le luminarie evidenziano alcuni versi di Dante in
un percorso ideale attraverso le tre Cantiche.
Il Dantedì
A partire dal 25 marzo
2021 si celebrerà il “Dantedì”, la giornata dedicata al
Sommo Poeta. La proposta per l’istituzione del “Dantedì”
era partita, nella primavera del 2019, dal Corriere
della Sera che aveva sostenuto, tra le date più adatte,
proprio quella del 25 marzo. Il progetto della giornata
per Dante Alighieri aveva raccolto l’adesione di
prestigiose istituzioni culturali quali
l’Accademia della Crusca, la Società Dantesca, la
Società Dante Alighieri, l’Associazione degli
Italianisti e la Società Italiana per lo studio del
pensiero medievale, intellettuali e studiosi
italiani e stranieri e, finalmente, del Consiglio dei
Ministri, su proposta del ministro per i Beni e le
attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini.
Alcuni interessanti dettagli di questa
manifestazione spiegati dalla scrittrice prof.
Ersilia Di Palo di Napoli:
« […] La scelta del 25 marzo non è
casuale, per gli studiosi rappresenta l’inizio del
viaggio di Dante nell’aldilà. Il sommo poeta si sarebbe
smarrito nella “selva oscura, ché la diritta via era
smarrita”, nella primavera dell’anno in cui fu indetto
il Giubileo da Papa Bonifacio VIII (bolla del 22.02.1300
ndr).
L’iniziativa è stata condivisa da
prestigiose istituzioni culturali, dall’Accademia della
Crusca, dalla Società Dantesca, dalla Società Dante
Alighieri, dall’Associazione degli Italianisti e dalla
Società italiana per lo studio del pensiero medievale.
Enrico Malato, studioso ed editore della
«Commedia», propone anche un’«incoronazione»
simbolica cioè la consegna di quell’amata corona
di alloro, che Dante aveva tanto desiderato in
vita ma che Firenze gli negò. Dante esprime questo suo
desiderio nel canto XXV del Paradiso, a
conclusione dell’impresa poetica: “se mai il «poema
sacro», la cui fatica mi ha smagrito, riuscirà a vincere
la crudeltà di quelli che mi tengono fuori da Firenze
(«dal bell’ovile»), allora tornerò nella mia città
invecchiato ma con ben altro (e altissimo) prestigio (di
poeta): potrò dunque prendere la corona d’alloro sul mio
fonte battesimale..”.
Ma il ripensamento dei fiorentini e il
riconoscimento auspicato non ci furono. Dante Alighieri,
anche se è raffigurato con la corona d’alloro, in vita
non fece in tempo a ricevere tale onore.
Egli morì di malaria mentre era in esilio
a Ravenna, nella notte tra il 13 e il 14 settembre
del 1321. Il suo sogno svanì dunque con lui e Firenze
non si associò al pianto universale per la sua
scomparsa. La corona d’alloro avrebbe dovuto omaggiare
il “poema sacro”, al quale Dante aveva dedicato gran
parte della sua vita con un immane dispendio di energie
fisiche oltre che intellettuali e morali. Il professore
Enrico Malato propone che l’«amato alloro» venga
idealmente consegnato al Sommo Poeta nel 2021,
settecentesimo anniversario della sua morte
e che quella cerimonia solenne al Quirinale possa
coincidere proprio con la prima giornata del
Dantedì ».
Dante ed il “Corona Virus”
Purtroppo tutte le
manifestazioni programmate stanno subendo i ben noti
condizionamenti posti dalla pandemia.
Confesercenti e Confcommercio hanno chiesto ed ottenuto
dal Sindaco di Ravenna la possibilità di prolungare il
programma degli eventi anche nel 2022. Ovviamente gli
eventi già in programma verranno organizzati
regolarmente o posticipati all’autunno, anche perché
l’anno per le celebrazioni è e rimane il 2021; però è
possibile prevedere altri appuntamenti danteschi anche
per il prossimo anno. In sostanza, l’anno dantesco verrà
regolarmente celebrato ma avrà una coda nel 2022 con
nuove e importanti iniziative”, da settembre 2021 a
settembre 2022, tenendo come fulcro centrale delle
celebrazioni il 21 settembre 2021.
N.B. Chi volesse approfondire il
programma delle celebrazioni può collegarsi al seguente
link: https://www.touringclub.it/notizie-di-viaggio/dante-2021-gli-eventi-le-mostre-e-gli-spettacoli-per-celebrare-i-700-anni-dalla
Oppure su Google : Dante 2021: gli eventi, le mostre e
gli spettacoli per celebrare i 700 anni dalla morte del
poeta.
Ravenna, 22 gennaio 2021
Tobia Costagliola
* * * * * *
DANTE E LA
NAVIGAZIONE
PERCHE’ NESSUNO
RICORDA IL DANTE NAUTICUS ?
di Silvestro Sannino
Caro Decio, in
questo anno 2021 ricorre il settimo centenario della
morte di Dante ed è normale che le DL NEWS devono ricordare adeguatamente l’evento.
Per quanto mi riguarda seguo gli
interventi in merito e mi sto facendo la convinzione che
all’improvviso siano diventati tutti esperti di Dante.
Servirà a qualcosa? Appena qualche anno fa molti
dicevano che Dante era “superato”, “obsolete” e quindi
andava eliminato dai curricoli scolastici.
Non sono un “dantista”; ho scritto il
breve saggio sul Dante Nauticus perché un caro amico,
Agnello Baldi, esperto di Dante per davvero e che da
pochi mesi ci ha lasciati, dopo alcune discussioni
sull’argomento mi “ordinò” di scriverlo; ma se l’editore
non lo diffonde in modo adeguato esso rimane ignoto ai
più.
La ragione del saggio è molto semplice e
pone una domanda. Perché nella sterminata produzione che
annovera decine di migliaia di scritti su Dante nessuno,
finora, ha mai affrontato il “Dante Nauticus”?
Il Simplicio di Galileana memoria direbbe:
“E’ chiaro, l’argomento non è importante”.
Ma Sagredo gli fa notare che nella
Commedia Dante fa un viaggio ed il viaggio, per natura e
per concezione, è assimilabile alla navigazione e quindi
come fa ad essere, il navigare in Dante, un argomento
secondario?
Per me si tratta di esporre questi
aspetti, questi concetti, in modo semplice ma
comprensibile e non banale. Io penso di farlo, ma più in
là, e non perché sono stanco, per queste cose le energie
ancora mi confortano. E lo farò non tanto per far
conoscere il mio liberculo, bensì per cercare di far
passare il messaggio che Dante è un riferimento
assoluto, non solo sul piano della Poesia ma anche della
cultura più profonda del suo tempo, il tempo di Alberto
Magno, di Tommaso d’Aquino, di Domenico, di Francesco,
di Bacone, di Federico II…
Va da sé che una visione del genere non si
sposa con i numerosi arrembaggi mercantilistici tanto di
moda in questo anno dantesco; ma il mercantilismo
letterario non avrà vita eterna, bensì una vita
effimera.
Ho sentito spesso persone, “comunicatori”
di professione esclamare: “ Ah! Ma il Dante che facevamo
al liceo (sic) era diverso…” Questo significa che il
soggetto de quo dopo il liceo non ha più letto,
esplorato Dante e adesso cerca qualcuno che lo guidi per
mano a scoprire un Dante di moda. Nei numerosi commenti
a Dante dei testi scolastici vi sono tutte le
informazioni necessarie per leggere Dante negli aspetti
oggettivi. Ma la dimensione poetica e culturale deve
avere sempre una componente soggettiva per cogliere
tutti i messaggi e le sfumature più variegate,
componente che si rinnova ad ogni rilettura; e solo in
tal modo essa costituisce “l’armonia (che) vincerà di
mille secoli il silenzio”; qui prendo a prestito una
espressione sublime del genio poetico di Ugo Foscolo.
Renato Ferraro ha letto con grande
interesse il mio Dante Nauticus e l’ha segnalato anche
alla Rivista Marittima il cui direttore Cap.di Vascello
Daniele Sapienza l’ha apprezzato ed ha preso in esame
l’idea di diffonderlo, tramite la Rivista, in forma
opportuna. Il comune amico e collaboratore delle DL
NEWS, Ammiraglio Renato, si è detto anche disponibile a
fare una recensione del saggio, come lui sa fare con
rara maestria, aggiungo io, ma vuole aspettare prima la
decisione operativa di Sapienza. La recensione potrebbe
uscire come un annuncio/preavviso dell’edizione da parte
della Marina, Rivista Marittima o Ufficio Storico.
Qualche giorno fa mi è capitato sotto gli
occhi il Notiziario della Sezione Ligure
dell’Associazione Italiana Biblioteche che riporta un
lungo articolo dal titolo “Dante e le arti del mare” a
firma Aldo Caterino, curatore della mostra “I mestieri
del Mare”. L’autore attinge a piene mani (basta vedere
le prime tre pagine del suo articolo) interi periodi e
concetti dal “Dante e la Navigazione”, cambiando qualche
termine con sinonimi. Una volta quando si riportava il
pensiero di un altro era buon uso metterlo tra
virgolette. Citare solo il libro nella bibliografia
finale non mi pare molto elegante; chi legge attribuisce
il concetto all’autore dell’articolo!
Caro Decio, sono cambiati i tempi? Penso
che se il Caterino avesse riportato le frasi tra
virgolette avrebbe fatto un lavoro più meritorio sul
piano letterario oltre che su quello intellettuale.
Affettuosi saluti
Silvestro
Sannino 15 gennaio 2021
* * * * * *
E ALLORA ANDIAMO ALLA SCOPERTA
DELLA “marittimità” dell’Alighieri
DANTE e la navigazione, il libro /saggio di Sannino
di Decio Lucano
La prima edizione di
DANTE e la navigazione del professor Silvestro Sannino
uscì nel marzo 2012, Edizioni Gaia, €8,00, pagg. 70 con
una prefazione di Agnello Baldi che sottolinea come
Dante dibatte nelle sue opere una conoscenza eccezionale
della materia.
Scrive Sannino: “La Commedia di Dante
racconta un viaggio e il viaggio, per natura e per
concezione, é assimilabile all’azione del navigare ...”
L’arte nautica del poeta fiorentino si
esplicita anche nel suo Convivio oltre ai suoi studi e
ricerche per dare alla sua narrazione- scrive Sannino –
originalità e chiarezza.
La navigazione nella concezione di Dante
Dante, che prende il profilo filosofico e
di principio, sia per gli aspetti operativi
procede nella navigazione cogliendo il reale senso dei
vari aspetti tecnici della pratica nautica come, ad
esempio, quando specifica che tutti gli “ offici “ a
bordo della nave sono ordinati “a far prendere il
desiderato porto per salutevole via“; e lo fa con
precisione e profondità, afferma Sannino, come nessun
altro ha saputo fare, né prima né dopo di lui.
E qui lasciatemi fare una digressione.
Parecchi anni fa, l’IMO aveva varato il “ Piano di
navigazione “, un po’ come in aviazione, e
per Dante, scrive Sannino, la condizione prima e
principale di ogni viaggio per la via più idonea,
più conveniente, più economica.
In sintesi “salutevole“, cioè si direbber
oggi in sicurezza.
Sicurezza e Assicurazioni marittime
Costi, benefici,
rischi da mettere in conto, conoscendo - scrive Sannino - “lo spazio
geografico/geofisico in cui si naviga e la sua
rappresentazione (carte nautiche medioevali) …
inoltre gli usi e i costumi del mare vengono
sanciti in formali regole e metodi di
navigazione contenute negli statuti marittimi che
fioriscono nell’area del Mediterraneo e … nascono
importanti Istituti di commercio marittimo come le
Assicurazioi marittime, i consoli del mare, la commenda,
il germinamento e cos’ via”.
Ricordiamo l'iniziativa di Cattolica
assicurazioni che ha fatto stampare il Trattato
sulle assicurazioni marittime, due tomi di notevole
grandezza d'Ascanio Baldasseroni, siamo nel 1600 ……...
Dante insomma è un sommo poeta,
intellettuale ma anche un uomo
di carattere e di coerenza politica tanto che dovrà
andare in esilio forzata dalla sua Firenze a Roma.
La realtà lo pone vicino ai tempi nostri, anche se la
presenza storica di miti e viaggi ai suoi tempi
ancora enfatizzati e ascoltati dà alla sua
voce un’aura quasi mistica … .
Dante – scerive Sannino – fornisce vari metodi
nella determinazione del tempo, è un meteorologo,
ha rispetto del mare; nel passo del XXI canto dell’
Inferno esalta le attività legate alla nave come
il rimessaggio invernale nell’arsenale di Venezia
e “ Infine non perde occasione di cogliere il lato
sentimentale della gente che naviga.
Un capitolo a parte Sannino lo dedica
alla Teoria della navigazione e della politica come
strumento di traffici e di civilizzazione (argomenti di
primo piano sin dall’antichità). Salomone non capiva
proprio il cammino della nave sul mare, l’epica impresa
degli Argonauti, Pompeo Magno che conia la celebre frase
navigare necesse est vivere non est necesse (riferito da
Plutarco). Nel Convivio introduce un nitido paragone
nautico/politico di stringente attualità, lo
riprendiamo:
“(…) Si come vedemo in una nave,
che diversi offici e diversi fini di quella a un solo
fine sono ordinati, cioè a prendere loro desiderato
porto per salutevole via: dove si come ciascun officiale
ordina la propria operazione nel proprio fine, così é
uno che tutti questi fini considera, e ordina quelli; e
questo é lo nocchiero, a la cui voce tutti
obbedire deono“.
Un chiaro ammonimento per i tempi
nostri, il porto, la meta, é preso solo quando la
nave é dentro, al sicuro, ben salda agli ormeggi e sulle
ancore:
“ e
legno vidi già dritto e veloce corre lo mar per tutto
suo cammino, perire al fine a l’intrar de la foce “ (Pd)
Qui entra in scena, onde evitare col
cattivo tempo la manovra di entrata col rischio di
perdere la nave e quindi é necessario l’impiego di un
pilota locale fin dai tempi più antichi; il termine
legno si trova nel Constitutum Usus di Pisa e in altri
codici minori e significa nave, naviglio minore.
Nave è per Dante sinonimo di vita di
percorso, punto di partenza; nel passo del
Convivio due termini nautici: artimone, vela principale,
pelago inteso come alto mare, allegoricamente la vita
stessa.
E il concetto del buon nocchiero per
navigare superando le difficoltà é indispensabile per la
sicurezza della nave che rimarrebbe senza un pilota
esperto, alla deriva e qui riportiamo la celebre
invettiva di Dante:
Ahi serva Italia, di dolore
ostello
nave senza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincia ma bordello! ( Pg)
Ma Dante entra anche
nel settore militare descrivendo le funzioni
dell’ammiraglio, capo supremo dell’armata navale, e poi
l’orientamento e la misura del tempo fornendo, - scrive
Sannino - un ampio e interessante repertorio di metodi
di orientamento e misura del tempo.
Distinguendo navigazione costiera e
d’altura, di giorno e di notte, stelle, sole, luna, nel
famoso passo del primo canto del Paradiso dove troviamo
sole e stella polare,
“ Sorge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo, ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,”
Qui il sommo
poeta entra autorevolmente nel messaggio
cosmografico, nella teoria astronomica, nella
descrizione degli astri, nello zodiaco, nella funzione
dell’ago magnetico, nelle maree e non più navigare
orientandosi con i venti di cui una messe di citazioni
nei versi della Commedia.
L’impresa degi Argonauti era il simbolo
di un viaggio difficile, la prima nave a solcare i
mari …
la navigazione d’altura richiede
precise condizioni operative. Dante è più vicino
allo scienziato che al poetare, addiritura consigliando
a valutare bene i propri mezzi e le proprie forze
(allegoria della nave e della navigazione) con profondi
significati di ordine teologico e morale.
Sannino sottolinea le opere di poeti e
esploratori con chiara preferenza di personaggi reali.
Dante ha una padronanza della concezione
dinamica della sfera celeste, afferma Sannino, che
gli consente di apprezzare la direzione voluta.
Circa la metà del XXVI canto dell’Inferno
è dedicata alla navigazione di Ulisse
I segni del tempo, la nave, i traffici
sono altra materia marinaresca di Dante, che, da par
suo, dice Sannino il lato umano emotivo e psicologico
pone nell’incontro con gli uomini, i personaggi
mitologici, i barattieri (lestofanti).
I legni hanno bisogno di
manutenzione e riparazione dopo lungo tempo e
viaggi, Dante si scopre carpentiere, il cantiere
navale sembra non abbia segreti per lui, gli arsenali,
la “ tenace pece che bolle”, alberi, vele, calafataggio,
utensili creano l’atmosfera dell’ambiente di lavoro.
La scienza è anche poesia, diceva
Vittorio G. Rossi, e Dante è anche scienziato,
diciamo noi in sintesi, con il Poeta perché la
navigazione é la metafora della vita (Convivio); bisogna
trovare le giuste rotte verso l’agognato porto
dell’esistenza, nonostante le difficoltà ed i pericoli
di cui é cosparso “lo gran mar dell’essere”
Sannino ha scritto un piccolo capolavoro,
lo misuriamo con il tempo che ne accresce la profondità
scientifica e filosofica.
Concludiamo questa lettura con una
nota nostalgica, la malinconia dei naviganti
per la solitudine a bordo dei legni:
“Era già l’ora che volge il
disio
ai navicanti e ’ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio”
(Pg)
di Decio Lucano
* * * * * *
Quando un grande
disastro promuove un grande passo avanti
per la navigazione
sintesi di uno studio dell'ing.
Flavio Scopinich
Molte volte i grandi
progressi scientifici in campo nautico, sono figli di
necessità belliche; basti pensare alla invenzione del
RADAR durante la Seconda Guerra Mondiale oppure lo
sviluppo della navigazione inerziale o di quella
satellitare, (principalmente utilizzate dai sommergibili
atomici armati di missili balistici), quando c’è la
necessità di conoscere con grande precisione la propria
posizione in mezzo al mare.
Il potere conoscere con precisione, la
propria posizione in mezzo al mare, è sempre stata la
principale preoccupazione di qualsiasi navigante. Fino
al 1700, i naviganti in mezzo al mare erano solamente in
grado di determinare con una certa precisione la
Latitudine (retta di altezza del sole a mezzogiorno),
mentre la determinazione della Longitudine, era
fondamentalmente affidata alla navigazione stimata,
basata essenzialmente sulle indicazioni (in termini di
angolo di rotta e distanza), fornite dalla bussola e dal
solcometro.
Quasi tutti sanno che nella storia della
navigazione, il gran passo in avanti corrispose, a
quando fu possibile potere compiere osservazioni di
astri verso oriente od occidente, in modo da poterne
calcolare la loro posizione teorica utilizzando le
effemeridi, a condizione di sapere l’ora esatta della
osservazione dell’astro.
Quindi, la capacità di sapere l’ora esatta
in mezzo al mare, la si può onestamente considerare uno
step determinante al progresso della navigazione, al
pari della bussola, descritta dal mio omonimo Flavio
GIOIA, (un navigatore amalfitano) che intorno al 1300,
avrebbe inventato (o meglio perfezionato), la bussola
magnetica (storicamente inventata dai Cinesi ed adottata
dai naviganti: Arabi, Veneziani ed Amalfitani).
Non molti sanno però, che la causa
scatenante di un meccanismo o sistema, che consentisse
ai naviganti, di conoscere esattamente l’ora in mezzo al
mare, fu un terribile naufragio nei pressi delle isole
SCHILLY, un gruppo di isolotti e scogli affioranti
situato a SW della Gran Bretagna.
Un grande e tragico disastro navale,
imputabile alla incapacità di determinare con precisione
il punto nave, fatto che spinse il Governo inglese a
promulgare il “Latitude Act”, un atto formale, nel quale
si prometteva un grandissimo premio in denaro, a chi
fosse riuscito a trovare il sistema di determinare con
precisione il valore della longitudine in mezzo al mare
e lontano dalle coste.
Infatti, il 22 Ottobre, correva
l’anniversario della grande tragedia delle Isole Scilly,
un disastro navale, nel quale 4 navi appartenenti ad una
squadra navale della Reale Marina Inglese, naufragarono
nei pressi delle Isole Scilly, causando la morte di
quasi 2000 marinai; disastro la cui principale causa, fu
identificata nella impossibilità da parte degli
ufficiali di rotta, di riuscire a determinare con
precisione la longitudine, in cui si trovavano le navi.
Antefatto –
(L’assedio del porto di Tolone):
Tutto ebbe inizio durante la guerra di
successione Spagnola, quando nel periodo fra il 29
Luglio ed il 21 Agosto del 1707, una forza bellica
composta da: Inglesi, Austriaci, ed Olandesi; posta
sotto il comando del Principe Eugenio di Savoia, avevano
messo sotto assedio il porto francese di Tolone,
cingendo; sia dal lato terra con gli eserciti austro
Olandesi, che dal lato mare, grazie alle navi della
flotta inglese. Navi, che sotto il comando
dell’Ammiraglio Sir Cloudesley Shovell, erano entrate
nel mar Mediterraneo e risalendo le coste meridionali
spagnole e francesi, erano arrivate di fronte al porto
di Tolone mettendolo sotto assedio dal mare.
Vista la situazione critica in città, per
ordine del re Luigi XV, dalle navi della flotta francese
(ancorate nel porto di Tolone), furono
smontati i cannoni e posti sulle mura, mentre le oltre
46 navi della flotta, vennero auto-affondate, per
impedire che venissero distrutte e/o catturate dalle
forze navali britanniche.
Fortunatamente per i francesi, le forze
terrestri Austro-Olandesi, non avevano sufficienti mezzi
ed uomini per cingere completamente d’assedio la città,
e dopo avere perso oltre 13,000 uomini (la maggior parte
per malattie), si ritirarono in Piemonte, abbandonando
le colline intorno a Tolone.
L’insieme della campagna
Austro-Olandese-Britannica, fu considerata un insuccesso
militare, anche se con l’auto affondamento della flotta
francese, veniva di fatto consegnato alla flotta Inglese
il dominio e controllo del Mar Mediterraneo
settentrionale, senza pero essere riusciti da parte
degli Inglesi a demolire le navi della flotta Francese.
Conseguentemente, vista l’impossibilità di
danneggiare o catturare le navi della flotta francese,
fu ordinato alla flotta inglese di tornarsene a casa
facendo prima rotta per Gibilterra, da dove
successivamente (nel tardo settembre), sarebbe dovuta
ripartire per ritornare a Portsmouth, base navale da cui
erano partite le navi che avevano partecipato
all’assedio di Tolone.
Ammiraglio Sir
Cloudesley Shovell Fort Saint Louis a protezione
del porto di Tolone
Rientro a
Portsmouth – (Il Naufragio):
Il 29 Settembre 1707, la flotta sempre ai
comandi dell’Ammiraglio Sir Cloudesley Shovell, partì da
Gibilterra alla volta di Portsmouth; la flottiglia era
abbastanza numerosa; era infatti composta da 21 unità
così suddivise: 15 navi da trasporto, 4 navi da guerra,
1 sloop ed 1 Yacht.
Nel dettaglio: la HSM Association era la
nave ammiraglia di Sir Cloudesley Shovell, mentre la HMS
Royal Anne era la nave assegnata al Viceammiraglio dei
mari Sir George Byng e la HMS Torbay era la nave
assegnata al Viceammiraglio dei mari Sir John Norris.
Considerando che la navigazione di
trasferimento da Gibilterra a Portsmouth, avveniva
durante il mese di ottobre, le condizioni meteo marine
furono pessime, con grossi piovaschi e forti raffiche di
vento da ponente. Appena la flotta lasciò le coste
meridionali portoghesi dell’Algarve, si avventurò
nell’Oceano Atlantico al fine di attraversare da lontano
il golfo di Biscaglia tenendosi contemporaneamente
lontano dalle coste francesi, con cui gli Inglesi erano
in guerra.
Continuando la navigazione verso la madre
patria, compiendo un ampio arco verso ovest, le
condizioni meteo marine peggiorarono ulteriormente,
rendendo di fatto impossibile la determinazione della
latitudine tramite la usuale retta d’altezza di sole,
obbligando gli ufficiali di rotta ad affidarsi
esclusivamente alla tecnica della navigazione stimata,
condotta in base alle distanze ricavate dai solcometri
ed agli angoli di rotta indicati dalle bussole
magnetiche.
Dopo molti giorni di navigazione, in
assenza di riferimenti visivi, gli ufficiali di rotta,
si affidarono all’unica indicazione possibile a quei
tempi; la misura della profondità e tipo di fondale; fu
così che il 21 Ottobre misurando una profondità fra 93 e
130 braccia (circa 170 – 240 metri), pensarono di essere
in prossimità della piattaforma continentale che portava
al canale della Manica.
Fortunatamente, nello stesso giorno
(grazie ad una provvidenziale schiarita), fu possibile
fare una retta di sole che fornì le indicazioni
necessarie per stabilire che la flotta si trovava ad una
latitudine di 48° e circa (50-57’) N. (a seconda delle
rilevazioni effettuate dai vari ufficiali di rotta sulle
navi).
Considerando nella loro globalità tutte
queste misure, gli ufficiali di rotta stimarono che le
navi della flotta si trovavano a circa 200 miglia WSW
dalle isole Scilly. Quel punto fortunoso (basato
sull’osservazione del sole) fu l’unico ed ultimo preso
il 21 Ottobre, quindi, il resto della navigazione della
flottiglia, proseguì secondo il metodo della navigazione
stimata, basandosi (come punto di partenza), su
quest’ultima assunzione.
Considerando che a causa delle ben note
difficoltà di ottenere punti nave certi, da parte delle
navi che effettuavano navigazioni oceanica su lunghe
distanze, era normale buona pratica e consuetudine (da
parte dei comandi delle basi navali di arrivo),
l’inviare una nave incontro alla flotta in arrivo, al
fine di guidarla celermente ed in sicurezza verso il
porto di destino.
Conseguentemente, il 21 ottobre dal porto
di Portsmouth, partì la “HMS Tartar”, una fregata da 32
cannoni di 5° classe varata nel 1702, i cui ufficiali,
dopo avere navigato alcuni giorni nell’area a sud della
Cornovaglia, senza avere incontrato nessuna nave della
Flottiglia comandata da Sir Cloudesley Shovell, decisero
di compiere un dietro-front, rientrando il 24
Ottobre.alla base di Portsmouth.
Nel frattempo, nelle prime ore del 21
Ottobre, il vento era girato da Nord a Sud Ovest,
fornendo un vento molto favorevole alla Flotta di Sir
Cloudesley Shovell, lungo la rotta di Est Nord Est,
scelta per tornare a casa.
Alle 11:00 del mattino, tre vascelli si
staccarono dalla formazione della squadra, per fare
rotta su Falmouth (un porto sicuro alla estremità Sud
Ovest della Cornovaglia). Alle ore 16:00 del 22 ottobre
mentre la flottiglia era in navigazione per ENE, venne
deciso un meeting a bordo della nave ammiraglia, dove
vennero ripetute le misurazioni della profondità. Molto
probabilmente Sir Cloudesley Shovell (pensando che la
rotta verso il Canale della Manica fosse sicura), verso
le ore 18 diede ordine di ripartire facendo rotta Nord
Est.
Canale della Manica
con i porti di Falmouth e Portsmouth
Dettaglio
porto Portsmouth
Le navi ripresero la navigazione, con il
vento sempre dalla parte poppiera ma con scarsa
visibilità, con l’ulteriore difficoltà (data l’ora,
dell’inizio di oscurità causa il tramonto incipiente)
della relativa oscurità notturna. Verso le 20:00, la
nave ammiraglia e molte altre navi del convoglio, si
incagliarono sulle rocce antistanti l’isola di
Sant’Agnese (una isola del gruppo dell’isole SCILLY),
più precisamente nella parte Sud Ovest dell’isola
stessa, causando la perdita irreparabile di ben 4 unità:
la “HMS Association”, la “HMS Eagle”, la “HMS Romney” e
la “HMS Firebrand”, mentre altre navi come la “HMS Royal
Anne” si misero in salvo grazie all’abilità
dell’equipaggio di ridurre la velatura delle vele alte
per ridurre la velocità e riuscire così a schivare le
rocce affioranti, in prossimità delle stesse, quando la
nave si trovava a meno di una lunghezza scafo dalle
rocce medesime.

Arcipelago isole SCILLY
HMS Association sulle rocce
Nel dettaglio:
1) La HMS
Association, una nave da guerra armata con 90
cannoni, di seconda classe, comandata dal Capitano
Edmund Loades, urtò violentemente la parte esterna della
“Gilstone Rock” al largo della scogliera occidentale
dell’arcipelago delle isole Scilly, causando
l’annegamento di tutti i suoi 800 marinai compreso
l’Ammiraglio Shovell. L’equipaggio della “St George che
navigava seguendo a breve distanza la “HMS
Association”,vide la nave ammiraglia venire inghiottita
dal mare in tre o quattro minuti. Anche la “St George”
urtò le rocce ma riuscì a limitare i danni
disimpegnandosi dalla scogliera così come fece la “HMS
Phoenix” che si arenò fra Tresco e St Martin’s
mantenendo fortunatamente la sua galleggiabilità e
potere così continuare a navigare.
Admiralty Chart N° 34
The Scilly Isles (Nel circoletto blu il luogo
dell’affondamento della “HMS Association”
2) La HMS Eagle
una nave da guerra di terza classe armata con 70
cannoni, comandata dal Capitano Robert Hancock, urtò le
“Crim Rocks” ed affondò con tutte le persone a bordo
sulle “Tearing Ledge” (una pericolosa scogliera,
appartenente alle “Western Rocks”). Fu stimato che sulla
HMS Eagle c’erano almeno tante persone quante ce ne
erano sulla “HMS Association” che la precedeva. Non ci
furono sopravvissuti, affondò ad alcune centinaia di
metri dal “Bishop Rock”, il suo relitto è tuttora
adagiato su di una profondità di 130 piedi ( circa 43
metri).
3) La HMS Romney
una nave da guerra di quarta classe armata con 50
cannoni, comandata dal Capitano William Coney urtò la
“Bishop Rock” ed affondò velocemente portando con se
negli abissi tutti e 290 membri dell’equipaggio meno uno
(inizialmente dato per disperso). L’unico fortunato
superstite dei tre maggiori vascelli affondati, si
chiamava George Lawrence, lavorava come macellaio prima
di raggiungere l’equipaggio della Romney ed essere
impiegato a bordo come furiere.
4) La HMS Firebrand
una nave da fuoco, comandata dal Capitano Francis Percy,
urtò la parte esterna della “Gilstone Rock” come la HMS
Association. Diversamente dalla nave ammiraglia ebbe un
destino migliore, in quanto un’onda la sollevò dalle
rocce, ed il comandante Percy riuscì fortunosamente a
dirigere il vascello nella parte meridionale delle
“Western Rocks”. fra St Agnes ed Anne affondando vicino
a “Menglov Rock” perdendo ben 28 dei 40 membri
dell’equipaggio.
Il numero esatto di: Ufficiali, marinai e
soldati che perirono nell’affondamento delle 4 navi è
incerto; alcuni documenti indicano un numero di vittime
oscillanti fra 1400 ed oltre 2000, facendo di questo
dramma del mare, uno dei maggiori disastri marittimi
nella storia del Regno Unito.
Nei giorni successivi, molti corpi di
uomini e parte dei relitti dei vascelli, vennero
ritrovati spiaggiati lungo le rive delle isole, dove
correnti ed onde, depositavano parti di nave ed effetti
personali di coloro che erano periti così tragicamente.
Molti corpi dei marinai provenienti dai
relitti, furono sotterrati sull’isola di St. Agnes. Il
giorno successivo al naufragio, sull’isola di St Mary,
nella baia di “Porthellick Cove” (situata a circa 7
miglia da dove giaceva il relitto della HMS
Association), vennero rinvenuti i corpi: dell’ammiraglio
Shovell, dei due suoi generi Narboroughs più quello del
suo aiutante di bandiera Edmund Loades.
Sulla spiaggia di St.Mary, dove vennero
recuperati e poi sepolti i marinai periti nel naufragio
(compreso il corpo dell’ammiraglio Shovell), fu eretto
un piccolo ceppo commemorativo. Successivamente, per
ordine della Regina Anna, il corpo dell’Ammiraglio
Shovell fu: esumato imbalsamato e trasferito a Londra,
dove fu nuovamente tumulato nella abbazia di
Westminster, e ricordato ai posteri con un monumento in
marmo a lui dedicato.
Ceppo commemorativo
dei marinai periti nel
naufragio
Monumento di marmo per Shovel
Considerazioni
nautiche
Analisi delle cause
del disastro:
Il passaggio a Nord dell’arcipelago delle
SCILLY fu sempre oggetto di dibattiti, e discussioni
fatte sia prima che dopo il disastro delle Scilly. Già
nel 1700 era stato pubblicato da parte di Edmond Halley
un “WARNING” sulla pericolosità di passare a nord
piuttosto che a Sud delle isole
SCHILLY, passaggio talmente pericoloso per
le navi, che venne descritto come: “Non senza grande
pericolo, e la perdita di molte di esse”. Nel “warning”,
vengono identificati 2 fattori principali:
1) – Il non considerare
a volte la variazione nel tempo della declinazione
magnetica, (in quella zona, la declinazione magnetica
valeva circa 7° Ovest), una differenza notevole rispetto
al nord geografico; che nelle bussole magnetiche; che
(per chi proviene da SW con rotta NE), porta a compiere
rotte vere più spostate verso nord, e quindi verso le
Scilly.
2) – Errori nei
portolani e nelle carte dell’epoca, che indicavano le
isole Schilly circa 15 miglia più a Nord della loro
reale posizione; onde per cui, chi si avvicinava
provenendo da SW, si poteva trovare le isole di fronte,
anziché alla propria sinistra
Il warning di Halley, concludeva con una
raccomandazione ai naviganti, di non superare la
latitudine di 40° 49’ N., in modo da potere rimanere in
una area sicura, posizionata a sud delle isole
SCILLY e di capo LIZARD (Il capo più
meridionale della Cornovaglia)
Isole Scilly – Capo
Lizard – Port Falmouth
Un altro fattore che portava le navi ad
incagliarsi sulle isole SCILLY era la presenza non
documentata all’epoca del naufragio, (anche se
sospettata da molti naviganti), di una corrente costante
verso Nord (Corrente di Rannel), la cui esistenza fu
documentata e poi confermata solamente nel secolo
successivo al naufragio. Una corrente avente una
intensità tale, da fare derivare una nave di 15 miglia
verso nord nelle 24 ore, quindi sufficiente a mettere
una nave in pericolo, se ignorata dall’equipaggio.
L’aspetto pericoloso di questa corrente, è che non era
sempre presente, ma a causa dei fondali modesti, si
manifestava principalmente in presenza di forti venti da
Ovest o Sud Ovest, (come era stato il caso
della flottiglia condotta da Shovell nell’Ottobre del
1707), venti che spingendo grandi masse d’acqua, che (in
presenza di fondali modesti), acceleravano il proprio
moto, trascinando con loro le navi che navigavano quelle
acque, senza ignorare le correnti di marea che prendono
una direzione diversa di ora in ora e possono
raggiungere i 2 nodi alle sizigie.
Nel 1720 (13 anni dopo il disastro delle
SCILLY), Josia Burchett scriveva: “ Non posso
testimoniarlo, ma ho una realistica idea del pericolo a
cui le navi sono esposte, quando provengono da nazioni
estere una volta entrate nel canale inglese. In modo più
specifico, quando i loro ufficiali non hanno il
vantaggio di conoscere correttamente e con precisione la
loro latitudine, per mezzo di una buona osservazione”.
Da questi due scritti di Edmond Halley e
di Josia Burchett, si evince che ambo gli autori
identificano la causa di eventuali errori commessi dagli
ufficiali nella conduzione della loro nave, nella
incapacità di determinare correttamente il valore della
latitudine.
La conoscenza della longitudine era anche
altrettanto importante per le navi che si accingevano ad
entrare nel canale della Manica. Purtroppo, prima
dell’avvento della navigazione astronomica, i naviganti
potevano contare solamente (per determinare la
longitudine), sulla misurazione del fondale tramite lo
scandaglio ricoperto di grasso nella parte inferiore del
peso, in quanto il peso di piombo collegato ad una
sagola graduata, consentiva di misurare la profondità
del luogo, ed il grasso consentiva di prelevare campioni
del fondo del mare, la cui tipologia (conchiglie,
sabbia, ghiaia, fango, ecc,) dava una indicazione
aggiuntiva alla profondità misurata, dato che la
tipologia del fondo era riportata sulla carta nautica.
Ricordando che la placca continentale si
estende verso l’Oceano Atlantico, fino a circa 100
braccia (circa 180 m.), per poi precipitare velocemente
a migliaia di metri di profondità.
Conseguentemente il potere misurare la
profondità in un range di 100 – 150 braccia, e poterla
confrontare con la posizione delle batimetriche della
carta nautica locale, consentiva di conoscere
approssimatamente la propria longitudine; se poi
contemporaneamente, si fosse potuto rilevare e riportare
anche una eventule retta di sole, la indeterminazione
dell’area del punto nave sarebbe stata ancora più
ristretta.
Analisi del viaggio di
Shovell:
Una probabile (ma realistica)
ricostruzione del percorso compiuto dalla flotta di
Shovell
(considerando la partenza da Capo Spartel
fino all’arrivo di fronte alle isole SCILLY nell’Ottobre
1707), è stata realizzata analizzando ed utilizzando i
dati registrati sui “Giornali di bordo” delle navi
superstiti.
In alcuni casi, è stato ipotizzato che le
cattive condizioni meteo marine durante il viaggio,
hanno interamente condizionato in modo negativo la
possibilità di determinare il valore della Latitudine,
anche se (ad azzerare le incertezze), il giorno prima
del disastro c’è stata una sufficiente schiarita
parziale, che ha consentito l’osservazione del sole, e
potere quindi determinare il valore della latitudine.
Bisogna comunque considerare, che la posizione calcolata
di quell’ultimo punto nave, è il risultato di una media
ponderata che teneva conto di molteplici osservazioni,
quali: il punto stimato della nave, l’osservazione della
retta di sole e la misura della profondità con annesso
tipo di fondale.
Nella mappa seguente, il disco pieno in
blu, indica la posizione più probabile del 21 Ottobre,
come scritto sopra. Il cerchio blu, indica la posizione
stimata della HMS Oxford quando il 22 Ottobre era ferma
con il resto della flotta, in attesa di istruzioni,
prima che ripartissero per l’ultimo e fatale tratto. La
linea rossa indica la latitudine di 49°40’N.
raccomandata dal warning di Halley, quale limite massimo
settentrionale per entrare nel canale della Manica.
La rotta percorsa negli ultimi 2 giorni
dalla flotta di Shovell nell’ultimo fatale tratto, deve
essere stata chiaramente per ENE, questa è una
indicazione che molto probabilmente Shovell e gli altri
ufficiali, ignoravano di essere troppo a Nord, per
decidere di continuare a navigare lungo con una rotta
per ENE, quindi questa rotta suggerisce che molto
probabilmente fu commesso un errore nella determinazione
della Latitudine il 21 Ottobre.
Nell’analisi fatta in seguito al disastro,
fu anche notato che la determinazione dei valori della
Latitudine erano molto più accurati di
quelli della longitudine, anche se comunque c’era una
approssimazione di 40 miglia nautiche (0°40’) sui valori
delle Latitudini trovate dai vari ufficiali delle varie
navi.
Probabile rotta
compiuta dalla flotta dell’Ammiraglio Shovell
La “HMS Orford” e le annotazioni del
sottotenente Lochard, sopravvissero al disastro al
contrario di quelle della “HMS Association”, quindi non
c’è la certezza di avere le informazioni in possesso
dell’Ammiraglio Shovel. Il risultato delle conclusioni
relative al Punto Nave, a cui pervennero i vari
comandanti, durante la riunione tenutasi a bordo della
“HMS Association” fa parte delle grandi incognite di
questo disastro navale. Ad ogni modo, dopo la riunione,
l’Ammiraglio Shovell decise di partire comunque con:
a) Una situazione di
scarsa visibilità
b) Al tramonto con il
buio incipiente,
c) Rotta ENE, quindi
essendo convinto di essere abbastanza a sud delle
Scilly.
[Osservazione personale: Qualunque
navigante, sa benissimo che navigare con il buio di
notte vicino alla costa è sempre sconsigliabile, un tipo
di navigazione notturna che viene compiuto solo se ci
sono eccezionali e validi motivi per correre il rischio.
Non si hanno notizie sulle quantità delle scorte viveri
o di acqua rimasti a bordo delle navi, ma all’epoca del
naufragio, da Gibilterra a Portsmouth per compiere la
distanza di circa 1600 miglia, i velieri (che
viaggiavano a circa 8 nodi), ci impiegavano mediamente
circa 8 giorni, mentre la flotta di Shovell aveva già
compiuto dal 29 Settembre (giorno della partenza da
Gibilterra) ben 22 giorni di navigazione senza soste,
quasi il triplo del periodo stimato, quindi è logico che
l’ammiraglio Shovell potesse avere fretta di arrivare a
Portsmouth, e nel caso avesse ritenuto di essere più a
Sud Ovest, pensava di potere arrivare alle isole Scilly
in sicurezza con le prime luci del mattino, magari
pianificando addirittura una sosta (oppure mandando una
nave della flotta) a fare rifornimento viveri ed acqua,
per la flotta stessa].
Il capitano della Torbay scrisse sul
giornale di bordo “Noi eravamo molto più a Nord di
quanto ci si potesse immaginare, e molto probabilmente
anche più ad est”.
Analisi dello
stato dell’arte della navigazione
Mentre non è possibile dimostrare la
correttezza delle asserzioni di Dava SHOBEL (una
scrittrice scientifica statunitense che nel suo saggio
“Longitudine”, racconta la storia dell’orologiaio John
Harrison), che imputava come causa del disastro, un
errore commesso sulla determinazione della longitudine.
Il disastro navale della flotta inglese alle Scilly creò
grande costernazione nella nazione, soprattutto perché
era stato consumato nelle acque inglesi, e stava
evidenziando evidenti lacune nella Royal Navy, nello
stato dell’arte della tecnologia in supporto alla
navigazione.
La Royal Navy portò davanti alla Corte
Marziale i pochi ufficiali rimasti che erano scampati al
naufragio della “HMS Firebrand”, ma dato che nessun
altro ufficiale (delle altre tre navi affondate), si era
salvato dal naufragio, non fu istruita nessuna altra
corte marziale.
A seguito della denuncia del capitano
della Lenox, che indicava nel malfunzionamento delle
bussole magnetiche una possibile causa del disastro, fu
inoltre condotta dalla Royal Navy una ispezione e
controllo dello stato di funzionamento delle bussole
magnetiche delle navi scampate al disastro, che erano
ormeggiate nelle basi di Chatham e Portsmouth, a titolo
di esempio sulle navi ormeggiate a Portsmouth solamente
4 (delle 112 bussole verificate), furono trovate in
grado di funzionare decentemente.
Dai risultati delle varie inchieste, fu
evidente che prima che si potesse ritenere sicuro
inviare delle navi a navigare in acque lontane e/o
pericolose, erano assolutamente necessari interventi
urgenti sulla strumentazione tecnica ed attrezzatura.
Considerando che agli inizi del 1700, il numero delle
navigazioni transoceaniche stavano aumentando in maniera
considerevole, fu evidente che fosse necessario cercare
di attrezzare adeguatamente le navi destinate a tale
tipo di navigazione per renderla sicura ed affidabile.
Flavio SCOPINICH
|
Non ci sono solo
scrittori che rappresentano la cultura pubblica,
se così vogliamo chiamarla; ci sono categorie di
persone che descrivono il loro lavoro, il loro
ambiente, forti della loro tradizione storica,
usando il linguaggio e lo stile dei loro
mestieri che diventano narrativa, romanzi,
saggi. Sono gli uomini di mare e di porto,
lavoro e letteratura che si fondono nella nostra
storia marinara, in particolare di quella
ligure.
Il 18 marzo 2008 fui invitato alla Casa del Mare
a Santa Margherita Ligure
a tenere una conversazione sul tema “Vivere il
Mare, Realtà e fantasia tra lavoro e
letteratura”.
L’incontro si svolgeva nell’ambito del ciclo
culturale Vivere il Mare che Marco Delpino,
l’ideatore della Tigulliana, promuove da
qualche anno con la pubblicazione di pregevoli
volumi e con la rivista omonima. Ripresi
l'argomento anche sul periodico Vita e Mare del
luglio 2014 edito dal dicembre 1965 a Genova dal
Collegio Nazionale dei capitani marittimi,
l'unico giornale della gente di mare . Articoli
che ho cercato di aggiornare e condensare per A
Compagna ( nei limiti di spazio ) in questo
interessante percorso che mette insieme uomini e
cultura delle navi e delle banchine.
C’era un armatore genovese che guardava tutti i
giorni dalla finestra di casa la sua nave in
disarmo dal 1964 sotto la Lanterna; quella nave
aveva fatto la fortuna della famiglia, era un
bastimento di sessant’anni pronto a partire….
Nel 1971, prendendo spunto da
questa storia, scrissi un articolo per Il Secolo
XIX intitolato “da sette anni nel nostro
porto una nave che non vuole morire”.
Lei si chiamava Cor Jesu. Qualche settimana dopo
l'uscita del giornale, forse per la scoperta di
questo sentimento segreto dell'armatore,
la nave fu mandata alla demolizione e io mi
sento ancora oggi responsabile di questa
drastica conclusione.
Navi che parlano, urlano, s’indignano prima di
venire fatte a pezzi in luride spiagge
asiatiche non sono leggende perché questi
corpi apparentemente vuoti hanno un’anima ;
quella che progettisti, costruttori, capitani e
armatori trasmettono alle loro barche, alle
loro navi, attraverso i loro sensi, la
loro intelligenza, vivendo insieme e dentro il
loro corpo.
Forse non c’è bisogno di studiare come
dare il soffio della vita ai robot quando gli
uomini hanno sempre costruito macchine con
l’anima. Rudyard Kipling
collocava il cuore, un vero cuore come il
nostro, nelle macchine della nave .
Vivere il Mare significa navigazione, scienza,
tecnologia attraverso il progresso culturale,
civile e sociale dell’umanità, significa
soprattutto lavoro.
Molti dei bravissimi comandanti di
velieri non sapevano nuotare e il loro
pensiero, lo sguardo, l’obiettivo era, oltre
che portare a destino nave e carico,
la loro terra e la loro famiglia.
La realtà a terra ha superato la fantasia; in
mare nonostante le profanazioni ( nello
sfruttamento dei fondali e la rapina sui relitti
) c’è ancora molto da scoprire.
Quando si parla di mare si caricano spesso le
parole di ambiguità e di retorica che non
contribuiscono alla sua conoscenza culturale,
scientifica e del lavoro nell’industria
marittima come insostituibile via di
comunicazione. La parola è una “parabola”
attorno al mondo e alla sua storia, affermava
un matematico.
Un'opinione autorevole, forse un po’ radicale,
riportata su un quotidiano nazionale, sostiene
che “ la presenza del mare nella letteratura
italiana, a parte le espressioni dei
viaggiatori, registra un fatto singolare e
contradditorio: il mare non c’è “. Per meglio
dire, non c’è un mare fisico direttamente
conosciuto, almeno sino alla fine
dell’Ottocento, nonostante che il mare sia in
realtà una delle voci a più alta frequenza della
nostra letteratura con le relazioni
dei viaggiatori (nel ‘600/700 ) e un intero
‘900 in cui il mare vive nelle
pagine una certa intensità anche poetica.
Il mondo del mare ci riserva delle sorprese: gli
uomini di mare sono anche scrittori.
Il linguaggio marino si era diffuso
ovunque tramite gli intrepidi navigatori
che si rivelarono ottimi descrittori di viaggi.
Secondo la critica americana, la
letteratura moderna nacque dallo stile delle
scritture dei libri di bordo dei comandanti
americani dall’inizio alla fine dell’800; in
particolare cinque comandanti, Amasa
Delano, 1817, Edmund Fanning, 1833, Richard
Cleveland, 1842, Gorge Coggeshall, 1844, Ioshua
Slocum, 1890, che fu anche il primo navigatore
solitario intorno al mondo con lo Spray nel
1888.
Le descrizioni dei viaggi di
scoperta nei giornali di bordo divennero
successi letterari pubblicati da
editori illuminati e crearono negli Stati
Uniti un genere letterario.
Questi marinai, navigatori e commercianti
( merchant navigator ) < sapevano scrivere
con abilità stilistica e sintattica i resoconti
dei loro viaggi, rappresentando in modo naturale
quel tipico soggetto ( che dilagò nella
letteratura americana) che è l’uomo completo,
l’uomo d’azione>. Che cosa li spingeva
a scrivere ?
Erano abituati a tenere i libri di bordo, i Log
Book, e usare con oculatezza professionale le
parole nella prosa dallo stile semplice e
diretto avendo, nei lunghi viaggi,
il tempo di scrivere. E leggevano molto,
si dice che il capitano Joshua Slocum
partì una volta con 500 libri.
Erano marinai addestrati all’osservazione
della navigazione e usavano il linguaggio più
adatto a trascrivere le osservazioni stesse,
creando, al di là delle normali trascrizioni
della navigazione e dei fatti di bordo, questo
loro unico stile . Secondo Mark Twain “ la
migliore scuola per uno scrittore era quella
frequentata da lui stesso: pilotare un battello
a vapore sul Mississipi”.
Esisteva un legame tra navigare e
scrivere, ed è quello che vogliamo dimostrare,
soprattutto tra i naviganti liguri, menzionando
episodi e persone della nostra terra negli
ultimi cinquant'anni.
Il 19 giugno 1964, il Comune di San Remo in
collaborazione con la Marina Militare, aveva
istituito un Premio, La Polena della Bravura,
con l’intento di dare agli uomini di mare di
tutto il mondo qualcosa che essi finora non
avevano avuto. Vittorio G. Rossi, che aveva
scritto il bando e faceva parte della giuria
esaltava “ la misura di quella qualità
imponderabile e anche difficilmente definibile
dell’uomo di mare, che è il suo spirito
marinaresco, che lo fa diverso da tutti gli
altri uomini, distingue il suo mestiere da tutti
gli altri mestieri e che non appartiene che a
lui.”
Fatti
ed episodi di capitani scrittori liguri
Il Club dei Capitani di Mare, fondato nel 1969,
ma ormai da tanti anni non più attivo, aveva,
oltre alla Corona Navale, premio Coraggio sui
mari di romana antica memoria, organizzato nel
1977 un premio di narrativa intitolato Il
Mare indirizzato solo ai naviganti.
La giuria era presieduta da Vittorio G.Rossi. Lo
scrittore aveva rifiutato lusinghe di ogni
genere da un grande editore per una iniziativa
analoga, ma aperta a tutti.
No, per Rossi, solo i marinai potevano scrivere
di cose di mare, e aveva accettato con
entusiasmo l’invito del Club dei Capitani . La
cerimonia di premiazione si svolse alla Terrazza
Martini di Genova nel 1977 e Rossi disse che da
questo Premio dovrebbe nascere un nuovo
scrittore di mare.
Vogliamo aggiungere che la rivista dello
shipping internazionale, TTM Tecnologie
Trasporti Mare, organo informativo di
associazioni professionali e di istituzioni di
prestigio, che ha superato la soglia dei
47 anni, è stata fondata a Genova da capitani
marittimi.
Il 21 marzo 1998 a Genova con
scrittura da valere come atto rogato da pubblico
notaro sei capitani ( Alfaro Gaetano, Andreatta
Ernani, Galleano Stefano, Lucano Decio,
Meriggioli Augusto, Schiaffino Prospero ) hanno
stabilito di costituire in Genova una “
Associazione di Scrittori di Mare “ da
considerarsi a tutti gli effetti come Ente
Gestore di un bastimento virtuale denominato “
Topsails “( le vele di gabbia ).
Per la letteratura di mare vorrei citare
il Premio di Poesia Lerici- Pea del 1971 da cui
l’editore Carpena pubblicò il volume Il
mare nei poeti stranieri curato dal critico
Piero Raimondi, un’antologia filtrata con un
criterio di selezione molto rigoroso delle
liriche provenienti dall’Europa, le due
Americhe, Russia, Giappone .
Nel nome del poeta ( del mare ) Giovanni
Descalzo nel giugno del 1985 si tenne a Sestri
Levante un dotto convegno “ Il mare nella
letteratura italiana del novecento” i cui
atti furono pubblicati da Res Editrice ( Milano
) a cura di Mario Dentone e Giancarlo Borri con
gli interventi di Giorgio Bàrberi Squarotti,
Elena Bono, Giancarlo Borri, Mario Dentone,
Adriano Guerrini, Stefano Jacomuzzi .
Il linguaggio del porto
Una nota a parte merita Dario Dondero, di
Moneglia, marinaio e portuale dalla spiccata
personalità, studioso e poeta anche
dialettale
(Appeso ai quattro angoli del vento, Ciao Mare,
Chi non sa navegà, Bandea gianca) che imprime
nelle sue liriche il ritmo di Whitman e
Melville. 
Il suo libro L’arte dei Barcaioli a Genova ( dal
sec. XV al sec. XIX ), graphos, 1996, è un
documentato testo delle categorie del porto che
fecero la storia della “ Superba”.
Dondero, profondo cultore della lingua e
del linguaggio marinaresco e portuale, stava
preparando in proposito un dizionario
enciclopedico marinaresco, purtroppo interrotto
per la sua morte. Scrisse: In materia di
linguaggio il porto è stato uno straordinario e
sorprendente laboratorio... A questo compito
hanno più volte collaborato con i loro scritti
portuali i magistrati della Repubblica di
Genova, noti come Conservatori del Mare,
già Salvatori del Porto e del Molo ( sec.
XIII ).
La lingua si può dividere in lessico che
determina il rapporto etimologico tra nome e
significato e in gergo, definito più una
lingua ermetica usata da comunità di
mestieri, come i Barcaioli, (Dondero), una
categoria eterogenea che concorse dal XV al XIX
secolo allo sviluppo del porto di Genova. Erano
chiamati barbi, diventati col tempo
anche imprenditori, il cui linguaggio è ricco di
parole straniere arabe, latine, inglesi,
francesi. Il glossario nautico, scandito nella
parlata degli operatori, può diventare
divertente, ad esempio gru, cicale,
grilli, piede di pollo, cavallino, salmone
corrispondono a oggetti, nodi, misure,
architetture marinareschi. Secondo Dario
Dondero, che stava ultimando il dizionario del
porto, esiste anche il “mal di porto” che
prende chi si avvicina e si occupa delle
banchine oltre che delle stive delle navi.
Vivere il Mare significa dunque parlare anche
un’altra lingua? Direi di sì. La lingua
del mare a bordo dei velieri, oltre che essere
un linguaggio di lavoro, è ricca di
vocaboli e di vivaci fraseologie per
comunicare tra navi e tra uomini.
Alcuni personaggi
Mario Dentone, Moneglia, una vita nella
cantieristica ligure, scrittore di romanzi
storici e di teatro, la trilogia Il padrone
delle onde, Il cacciatore di orizzonti, Il
signore delle burrasche
ambientato nell’ottocento fra velieri oceanici e
leudi della Liguria.
Flavio Serafini, comandante, direttore del Museo
Marinaro di Imperia, fecondo autore di
opere storiche della vela e della navigazione,
tra cui Capo Horn, Ponte di Comando, Storia del
Patria, editore Giraudo, La flotta scomparsa “ (
Storia degli armamenti velici viareggini). Dario
Lanzardo, riscoperto con il suo romanzo Il
principio di Archimede (2009, Effigie edizioni),
e L'ombra della Gulfstream, 2010, saggista e
fotografo, un intellettuale, che proviene
dall’Istituto Nautico di La Spezia con
esperienze a bordo di Liberty anni ’50.
Sottolineo, per me una bibbia, Il libro del Mare
di G.A.Bandini, Ed.Trevisini, 1954, 700
pagine, un’ antologia di poesie e
racconti del mare di ogni epoca . Giuseppe
Garibaldi era anche un ottimo scrittore oltre
che capitano di bastimenti. Negli anni cinquanta
è stato il testo su cui i futuri capitani
marittimi genovesi hanno sognato i loro viaggi e
imparato la lingua italiana attraverso una buona
letteratura di mare.
La produzione letteraria del Museo Gio Bono
Ferrari di Camogli, soprattutto sotto la
direzione del comandante Pro Schiaffino (
capitano scrittore ), oggi del comandante Bruno
Sacella, è prodiga di testimonianze di fatti
conservati nei Quaderni e nei libri di
bordo.
Pro Schiaffino e il museo
sono diventati un cult di letteratura di
mare, letteratura che non è inventata, che
presenta protagonisti e navi che “si
raccontano”. Un lavoro meticoloso esteso a
tutta la marineria italiana. Pro Schiaffino
comandante ( già citato ) manager, prolifico
scrittore e cultore di storia marinara,
Parlar camallo, Parlar marinaio, Storia degli
armatori genovesi del’900, Editrice Genovese,
Quando il mare racconta, e tanti altri titoli
dove l'humor, l'esperienza, la fantasia sono i
suoi caratteri letterari somatici.
Da pochi reperti è nato un bel museo a Chiavari
fondato dal comandante Ernani Andreatta
oggi polo di attrazione del levante genovese
fino a La Spezia dove il Museo della Marina
militare è una sede storica insostituibile.
Capisco che citare il Galata Museo del Mare di
Genova, uno dei più importanti d’Europa e
liquidarlo in due righe può essere quasi
offensivo; d’altronde dal suo Direttore,
Pierangelo Campodonico, figlio d’arte,
proveniente dall’Istituto Nautico, abbiamo
pagine di scritti di storia navale, e i
programmi attorno a questo speciale Museo
sono di respiro internazionale. Un luogo aperto
nella Darsena di Genova, propulsore di cultura e
di iniziative in collaborazione con
l’Associazione Promotori Musei del Mare
presieduto da un uomo di mare, Roberto Giorgi.
Ovunque ti muovi, scavi, fai ricerche
scopri quanto sia stato scritto e quante
testimonianze sono rimaste dalla gente di mare.,
soprattutto liguri.
Per quanto sia sbrigativo, e purtroppo col
rischio di omissioni, ho pensato di fare
un elenco di titoli e autori
capitani, Comandanti, Direttori di Macchine, che
hanno scritto libri pubblicati dopo il 1950 dove
è forte la componente della terra ligure.
Il mare viene celebrato come un mondo che impone
sacrifici e un lavoro che si rapporta con la
natura, con la nave e con gli uomini che la
governano, ma molto gratificante sul piano umano
perché regge solo per una forte motivazione
interiore, ricco di fantasia realizzata da una
realtà superata nei comportamenti e nella
quotidianità.
Capitani scrittori liguri
Giuseppe Comotto, Quando il vento ci portava,
1962, auspice Lega Navale Italiana;
Gaetano Alfaro, Il servizio giapponese,
1998, Il comandante del Vulcano, 1994, Lo Faro
editore, Lauro, una storia, un mito e libri di
poesie; Augusto Meriggioli, Di mare e
dintorni,2003,SF, Guida per il Manager del
mare,1991, APCM, Manuale per l’esercizio delle
navi cisterna, 1983 Hoepli, Il ritorno dei
pirati, 2000, Frilli Ed. ; Piero Buatier
de Mongeot L’ultimo dei
transatlantici, 2002, Le Mani-Microart’s;
Dobrillo Dupuis, autore di libri storici della
marina mercantile italiana nella 2a guerra
mondiale tra cui La flotta bianca, Arcipelaghi
in fiamme, Forzate il blocco editi da
Mursia ;
Giovanni Sbisà, I colossi del mare, 2004, Frilli
ed. La scia della nave,2007, Frilli ed.,
Tempeste e Champagne,1997, Grafica LP ; Angelo
Mignone, Colpi di mare Canti di sirene, 1999,
Grafica LP ; Aldo Baffo, Dal clipper alla
Liberty, 2004, 2005 versione inglese, Frilli
ed., Navigando su mari lontani, 2007, Frilli
ed.; Guido Badano, Ricordi di un capitano, 1992,
Nuova Genovese; Norberto Biso, I vivi, i
morti, i naviganti, Longanesi, 1994; Silvano
Masini e Gian Luigi Maggi, 2006, Caroggio
editore, Storia dell’automazione navale e
dintorni ( l’evoluzione tecnologica e
umana della nave negli ultimi 40 anni); Massimo
Zubboli, La nave bianca, 2005, Minerva, La
bianca casa sulla scogliera, Ricordi lontani di
viaggi lontani,2002, Storie di mare e di eroi,
2009, Minerva ed.Assisi; Ferruccio Falconi,
Invito al mare, 2002, CAM Idrografica, e
Grazie Venezia 2013, ( centinaia di articoli per
la sicurezza e la salvaguardia
dell’ambiente); Ariel Canzani D., (
argentino, comandante, lo cito tra gli italiani
perchè era di casa nel porto di Genova anni’60,
poeta di primaria grandezza non solo nella sua
nazione), conservo con dedica El Payaso del
Incendio, Losada, 1965; Domenico Biaggini,
Memorie di un vecchio marittimo,2002, Soc. M.S.
Lerici ; Gianni Caratelli,1968, La Scuola
ed., Barra tutta a dritta; Franco Bagnoli,
Premio Viareggio con Inverno Nord
Atlantico,1966, Mondadori; Franco Fenucci,
Carrette, 1971, Rebellato; Stefano Giacobbe, La
Saga, 2006, Grafica DGS; Stefano Galleano,
Piloti della Lanterna, 1996, Nuova Editrice
Genovese; Marco Ferrari, I sogni di Tristan,
1995, Sellerio e Grand Hotel Oceano,
1996,Sellerio; Dino Emanuelli, Cento donne sotto
coperta, In crociera siamo tutti capitani,1979
ed. Mursia, ( eccellente comunicatore con le
trasmissioni radio e poi tv Onda Verde Mare,
Pianeta Mare), fondatore dell’Accademia di
Marina Mercantile di Genova, autore dell’Inno
della marina mercantile. Lasciatemi ricordare il
sottoscritto, per dovere di cronaca, capitano,
insegnante, editore e direttore di
riviste, autore di undici libri tra cui, Un po’
di oceano negli occhi,1984, L’Autom.Navale, Però
il porto è ancora quello, 2001, De Ferrari, La
congiura del Padre,1994, L’Aut.Nav., L’odissea
del Foscolo,2003, L’Aut.Nav., Marrubbio,
2006, ( all. alla rivista TTM), Parlavi
coi venti e con Dio, 2010 e Piccola Antologia di
Vittorio G. Rossi, 2013, edito dalla Libreria
del Mare di Roma.
Alex Stefani, bravissimo nella narrazione
noir, Il destino di Valeria, 1998, Ed.
Genovese, Camera 311, 2007, Frilli Ed., Il
mio mestiere sono i guai 2013 ed. Europa,
L'ultima notte. 2016, Pegasus; Guido
Barbazza, capitano, ingegnere, Salvate il
Generale!, 2008, Frilli Ed., Il diavolo
all’Acquasanta, 2010, De Ferrari, Rewind, De
Ferrari, Uomini neri, 2013, Magenes, Il genovese
volante, 2017.
Carlo Gatti, Quelli del R/M Vortice, Genova,
Storie di navi e salvataggi, 2003, Nuova
Editrice Genovese ; i marconisti Emilio Carta,
Bandiera Gialla, colera a bordo, 2009, Magenes,
Il segreto di Cala dell’Oro,2007, Magenes e Ugo
Dodero, con il suo L'ultimo viaggio della
liberty ship Elena Parodi, 2013; Alberto
Gatti, La ballata del lupo di mare, 2008, Mursia
.
Nel 2013 Armando Editore pubblica La flotta che
visse due volte, Storia delle navi di Achille
Lauro di Tobia Costagliola, già Capitano sulle
navi di Lauro e poi Chartering Manager del
Gruppo, ben radicato in Liguria, 800
pagine di storia marinara del Novecento, scritto
con passione documentale ed emotiva, un
romanzo classico. Nel 2015 il comandante
Gaetano Mortola pubblica Navicare necesse
est, la autobiografia di un capitano,
professionista del mondo delle petroliere, che
racconta 50 anni di colpi di mare e di
vita di bordo.
Gianfranco Carta, Il giro del mondo in 80 ( +80
) giorni,2002, Erga edizioni;Giorgio Grosso, Mal
del Mare, 2007, Frilli ed., Le grandi sfide,
2007, Frilli Ed. un libro da consultare come una
enciclopedia. L'ultima scialuppa,
Eugenio Giannini, Mursia, 2016.
Aldo Mascolo con Dalla finestra sul mare e
Diario e avventure di un uomo di mare, 2011,
navi, vita di bordo, storia autobiografica della
nostra marina, documenti inediti tra passeggeri
e storiche navi da
crociera.
Molta parte della grande letteratura è stata
scritta a tavolino.
Noi ci atteniamo pervicacemente
all’assunto che chi non ha provato e vissuto non
può scrivere di mare e di uomini di mare.
Il saper descrivere con forza drammatica e
autoironica ambiente e stati d’animo di questi
capitani non è minore, se non nella
tessitura di trame, dei grandi narratori di mare
del passato: da Kipling a Conrad, da Melville a
Poe a Pierre Loti, a Stevenson…
Di questo mondo che oggi non esiste più, uno dei
più autorevoli studiosi è stato Danilo Cabona,
custode di fatti, personaggi, verità del porto
di Genova, dei traffici nel Mediterraneo, di chi
viveva il mare e lo egemonizzava.
Il Porto Vecchio a Genova è stato trasformato in
una fiera, il linguaggio sotto le enormi gru dei
terminal contenitori non è più quello del mare,
è un gergo contaminato da usi commerciali
attuali.
Non a caso, affermava pragmatico Cabona, Diderot
nella sua Enciclopedia sostenne che il
progresso annulla il ricordo, le storie del
nostro passato…
Cabona ha curato come capo dell'ufficio storico
del Consorzio del Porto di Genova magnifici
volumi di testimonianze delle attività portuali
Oggi la lingua del mare è la lingua inglese, non
solo perché usata dagli addetti ai lavori,
ma per convenzione internazionale, e all’uomo di
mare è richiesta la sua conoscenza perfetta.
Dobbiamo prendere atto che gli uomini di mare
non scrivono più, le cause possono essere
diverse : troppa burocrazia? Troppa tecnologia a
bordo? La comunicazione digitale ha soppiantato
l'ispirazione delle lettere ? Chi lo sa.
Le ultime pagine di “ scrittori del mare “
liguri sono dei capitani genovesi
diplomati all'Istituto Nautico San Giorgio di
Genova in occasione nel 2016 del bicentenario
dell'istruzione nautica in Italia. Il
libro s'intitola “Navigando sul Mare dei
Ricordi “ edito dall' Associazione Ex allievi
dell'Istituto, una quarantina di testimonianze
della vita passata su tutti i tipi di navi e su
tutti i mari . Un forte suggello di
genovesità. Il secondo volume, Il mio
Nautico, coordinato dal comandante Flavio
Serafini di Imperia, già citato nel nostro
breve saggio, è edito dall'associazione ex
allievi di questo Istituto Nautico .
Tutt'e due volumi trasbordano spirito e braccia
liguri, ancora tante fotografie, ricordi,
racconti suggestivi in prima persona.
Un lascito morale e intellettuale per le
generazioni future, per la nostra Liguria, ma
anche un invito a non abbandonare questo filone
letterario di letteratura e lavoro.
di Decio
Lucano
dalla rivista A Compagna, luglio 2017
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L’odissea di un equipaggio della
marina mercantile italiana all’inizio della seconda
guerra mondiale nell’inferno di Dunqerque
“La disciplina è molto più importante del coraggio, il
coraggio è carnale; la carne che cede alla paura oppure
si rifiuta; la disciplina riguarda l’uomo tutto intero“
scriveva Vittorio G. Rossi, uno scrittore che aveva
scavato a fondo l’animo umano in tempo di pace e di
guerra, soprattutto gli uomini di mare.
“Il mare non insegna solo un mestiere, diceva, insegna a
essere un uomo “.
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C’è una storia forse unica e originale che riguarda un
equipaggio della Marina mercantile italiana, prima
dell’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno
1940, che si svolge tra le campagne e le città del
Belgio e della Francia devastate dalle armate tedesche.
Le navi mercantili italiane dal settembre 1939, pur
essendo l’Italia neutrale, erano sottoposte
nell’Atlantico, nel Mare del Nord, la Manica, il Baltico
ad attacchi aerei o correvano il rischio di saltare in
aria sui banchi di mine.
Il piroscafo Foscolo della Tirrenia, 35 uomini,
proveniva da Fiume, Pola, località dell’Istria, isole
del Quarnaro e Dalmazia. Era un equipaggio italiano
perché allora Istria, Fiume e Dalmazia erano
territorio dello stato italiano.
Costruito a Glasgow nel 1919, 3.059 tonnellate di stazza
lorda, il Foscolo fu acquistato nel 1934 dall’Adria di
Fiume, società fusa nella Tirrenia nel 1936.
Era partito per il viaggio di linea da Fiume il 18 marzo
1940, dopo aver caricato in diversi porti italiani e
spagnoli, per Rotterdam e Anversa che raggiunse nei
primi giorni di maggio dopo alcune soste dove furono
effettuati severi controlli da parte degli inglesi a
Gibilterra e nella Manica.
Era l’ultima nave da carico italiana di linea a lasciare
il Mediterraneo.
Nella prima pagina dell’estratto del Giornale Nautico
del 15 maggio 1940 il comandante scriveva: “Alle 4:30 si
parte da Anversa diretti a Genova secondo gli ordini
ricevuti dalle Autorità consolari. Oltre all’equipaggio
si trovano a bordo da lunedì sera otto connazionali di
cui tre donne e due bambini, portati a bordo dal
R.Console comm. Cuneo in persona, per rimpatriarli, date
le circostanze del momento. Tutti muniti di passaporto
italiano e lettera consolare di accompagnamento. Si
parte col piroscafo in perfette condizioni di
navigazione e con tutti i mezzi di salvataggio
efficienti e pronti all’uso. Date le eccezionali
contingenze del momento e per maggior sicurezza già nei
giorni precedenti alla partenza, si ebbe cura di
pitturare la bandiera nazionale anche sulle altre due
boccaporte in tutta la loro superficie. Attraversati i
docks del porto di Anversa col pilota, si entra nella
chiuse di Kruisschans alle 6:00 circa. Cambiato il
pilota alle 7:00 circa si esce dalla chiusa ed ha inizio
la navigazione lungo la Schelda. Come di intesa con le
nostre autorità e rispettivi capitani si procede
navigando in vista degli altri piroscafi nazionali A.
Locatelli e Fidelitas.
Giunti all’altezza di Bat una scarica di proiettili di
cannone viene a cadere in prossimità della nostra prua e
fianco sinistro senza arrecare danni all’infuori di
abbondanti cadute di schegge sulla coperta.”
Il 10 maggio 1940 l’offensiva militare germanica aveva
aggirato la linea Maginot (una trincea che si estendeva
dalla Svizzera seguendo il confine tra la Francia e la
Germania). In pochi giorni Olanda e Belgio dovettero
arrendersi mentre un intero corpo di spedizione
britannico fu costretto a ripiegare su Dunqerque.
I soldati inglesi in fuga, abbandonate le armi
pesanti, affluirono sulla spiaggia di questa città
cercando di mettersi in salvo sulle centinaia di mezzi
nautici e navali che erano generosamente accorsi
dall’Inghilterra.
Abbiamo davanti agli occhi i barconi e le imbarcazioni
precarie di fuggitivi dall’Africa del Nord, quelli che
si sono salvati dai tanti naufragi. Migliaia di profughi
con i soli vestiti addosso, dopo aver affrontato in
terraferma lunghi percorsi tra guerre e rischi di ogni
genere, sono stati soccorsi e accolti dalle nostre
autorità e dalla benevolenza delle nostre popolazioni
isolane.
Qualcosa di simile, forse peggio, stava capitando
all’equipaggio del Foscolo dopo la partenza da Anversa.
Ma seguiamo la loro storia.
All’altezza di Knokke, Belgio, il 15 maggio il convoglio
con il Foscolo segue le rotte per evitare i campi minati
verso la Manica. Intorno alle quattordici il
piroscafo subisce un attacco dei
cacciabombardieri germanici. Nonostante le abili
evoluzioni per evitare le bombe, alcuni ordigni pur non
centrando la nave cadono così vicino alla scafo da
sconquassarlo e aprire delle falle nell’opera viva. La
nave, danneggiata, si adagerà sul basso fondale.
“All’interno della nave la distruzione è
gravissima” scrive il comandante sul Giornale Nautico,
ma, tranne qualche contusione, a bordo sono tutti salvi.
Viene dato l’ordine di abbandonare la nave. Prima una
lancia con i passeggeri e alcuni marinai, poi l’altra
con a bordo il resto dell’equipaggio, si dirigono e
sbarcano sulla costa belga nel porto di Zeebrugge,
non senza il rischio di essere centrati dagli
inflessibili caccia tedeschi che sorvolano inflessibili
i convogli.
I passeggeri vengono affidati all’Agente Consolare
italiano, ma il comandante col primo ufficiale e il
secondo di macchina compiono su di un peschereccio una
ricognizione del relitto per verificarne le condizioni.
Era giovedì 16 maggio, sfidando il mare agitato, gli
aerei che volteggiano minacciosi e le mine dietro le
creste delle onde, riescono ad affiancare la nave e
salirvi.
Il cassero ha le lamiere divelte, i locali
semidistrutti, riescono a recuperare i libretti di
navigazione che erano in una valigetta sempre pronta
all’evenienza, ma non i libri di bordo. Il Foscolo
sta lentamente coricandosi sul fianco destro
(scriverà il comandante), la nave è perduta e i
tre ufficiali ritornano verso Zeebrugge.
Ancora prima di arrivare in porto, vedono il Foscolo
affondare.
“Il relitto trovasi affondato a miglia tre circa,
fuori Knokke, aggiunge il comandante nel suo giornale
nautico, diventato un quaderno dalla copertina nera,
vidimato dall’Agenzia Consolare di Ostenda.
Naufraghi a terra, con il solo vestito addosso, senza
soldi, in terra straniera l’equipaggio comincia una
navigazione che durerà fino al 9 giugno 1940, mantenendo
inalterata come a bordo la disciplina attorno al suo
comandante. Non più per mare ma per terra, in un’area
geografica che è ricordata nella cronaca della seconda
guerra mondiale come tra le più cruente e sanguinose che
ha il suo epicentro nell’inferno di Dunkerque tra il 26
maggio e il 3 giugno 1940.
19 maggio 1940, il comandante scrive: “ Mi reco insieme
al Reggente Console al Comando Marina belga per
comunicare con le mie superiori autorità. Nulla da fare.
Mi propongono come unica via d’uscita di metterci a
bordo di un piroscafo lettone che si trova a Zeebrugge e
ritornare in patria; ma, fatto un sopralluogo, constato
la non navigabilità della nave. Dopo aver fallito questo
tentativo di rimpatrio, l’agente consolare mi comunica
che il suo compito era finito e m’invitava a sloggiare
insieme al mio equipaggio. Partiamo in due gruppi,
prelevando con regolare ricevuta all’Albergo Kursaal
Casino coperte di viaggio per l’equipaggio.
La sera del 20 si giunge a Dunqerque dopo un viaggio di
stenti e di peripezie.
Il reggente Console italiano era già partito, ma veniamo
accolti cordialmente e tramite un sacerdote
sistemati alla buona all’Ecole Saint Joseph, un edificio
scolastico accanto a un convento di suore.”
Le sorelle, assicurò il religioso, sarebbero state ben
liete di ospitare gli sfortunati stranieri. In effetti
la presenza dei marinai si rivelò provvidenziale perché
il rifugio antiaereo era accessibile solo dalle
strutture adibite a scuola. Se la struttura fosse stata
bombardata, i rifugiati (e le suore) sarebbero
rimasti prigionieri delle macerie. Detto fatto, come è
nell’abitudine del loro mestiere, i marinai, armati di
piccone e attrezzi improvvisati, aprirono uno sbocco
attraverso il muro che dava sulla strada. Il caso volle
che alcuni spezzoni di uno dei continui bombardamenti
aerei su Dunquerque colpissero un’area interna
dell’edificio che, franando, fece crollare l’unica
uscita preesistente.
Il pertugio aperto dai marinai evitò la morte per
soffocamento ai rifugiati, comprese le suore.
Impressionate e commosse dall’evento, quasi un miracolo,
le suore dimostrarono la loro gratitudine dividendo le
poche provviste con toccante semplicità allo stesso
tavolo insieme ai marinai. Nell’atmosfera di
disperazione della città tra sirene, allarmi, stuka in
picchiata, scoppi e incendi, l’equipaggio doveva
resistere come se fosse stato sulla nave in un mare in
tempesta.
“Si dorme nelle cantine dove si passa parte della
giornata tra allarmi continui e bombardamenti aerei”-
prosegue la stringata relazione del comandante- “Vitto
di miseria: pochi grammi di pane e un piatto di
brodaglia.
Tramite il comando militare mando un telegramma
all’Ambasciata italiana di Parigi esponendo la nostra
situazione e chiedendo immediata assistenza.
Passano mercoledì e giovedì senza risposta. Vita di
stenti, privazioni e pericoli, faccio nuove pratiche per
ottenere approvvigionamenti avendo esaurito ogni
scorta”.
Una maestrina della città, che insegnava nell’istituto
delle suore, venuta a conoscenza del “miracolo”,
ottenne l’autorizzazione dal borgomastro a prelevare per
l’equipaggio una volta tanto quindici pani presso il
forno militare e generi alimentari nella Nouvelle
Gallerie. Anche il panettiere si impietosì delle
condizioni dei naufraghi, aumentando la razione di pane
e dando loro anche un rasoio, delle lame, candele e
lacci per scarpe.
Ora l’equipaggio aveva tre rasoi; un lusso nell’ inferno
della città.
“Attacchi aerei continui e incendi, ci mettiamo spesso
all’opera per difendere l’edificio dal fuoco, ma nella
serata di venerdì dobbiamo sloggiare d’urgenza perché le
nostre cantine sono requisite dalle autorità
militari che ci fanno trasferire nei fondi
del Musèe des Beaux- Arts della città, ove si svolgerà
ulteriormente la nostra vita di stenti per cui la
municipalità di Dunquerque ci concede dei buoni per
prelevamento di viveri per qualche giorno.
Tutti sani e molto appetito- scriverà con ottimismo il
comandante. I francesi si dimostravano comprensivi e
disponibili con gli italiani in quelle circostanze.
L’imponente struttura del Museo nel cuore della
città era occupata solo dall’anziano custode e dalla
moglie che furono felici di non essere più soli.
Sopra le teste dei marinai, alloggiati nelle cantine,
c’erano grandi sale piene di opere d’arte di scuola
fiamminga, olandese, francese, italiana e la
preoccupazione del custode era quella di salvare la
quadreria.
La città era duramente provata, fumo, incendi e
detriti da per tutto; migliaia di soldati inglesi in
ritirata continuavano ad affluire nel porto e
cercavano di imbarcarsi per Dover. Molti avevano perso i
contatti con i comandi e vagavano tra le rovine,
un’anarchia che toccò anche quelli del Foscolo, perché
un reparto di inglesi forzò le porte per entrare nel
Museo.
Con fermezza l’equipaggio riuscì a dissuadere il
reparto, ma ormai i bombardamenti avevano
distrutto buona parte della città e il porto da dove si
diffondeva l’odore acre dei depositi di oli
combustibili che bruciavano. Attorno al Museo gli
edifici erano diventati bracieri. Anche qui come
alla scuola del convento, l’equipaggio del Foscolo
rischiava la vita. Invece di pensare subito alla propria
salvezza i marinai italiani si attivarono per portare al
sicuro in un sotterraneo quadri, incisioni e oggetti
antichi. Dieci ore di lavoro che permise di salvare il
patrimonio museale in un sotterraneo tra cui dipinti di
Rubens, Brughel, Magnasco, Corot e uno schizzo di Jean
Bart, il celebre corsaro venerato in Francia la cui
tomba si trova nella vicina chiesa gotica di
S.Eloi.
Il comandante scriveva: “Intorno tutto brucia, è
impossibile rimanere in questo posto, si decide di
scappare verso la campagna insieme alla famiglia del
guardiano del museo”.
L’equipaggio, trentacinque figuri che assomigliavano a
tutto tranne che a dei marinai, insieme ai custodi del
museo, fecero rotta verso l’interno per raggiungere la
cittadina di Rosendael, ma trovando solo
distruzione e fiamme ripiegarono nel territorio
assediato dai tedeschi. Dopo una lunga marcia nella
campagna deserta, dove la primavera inoltrata aveva
riempito la natura di colori e di profumi che ripulirono
i polmoni degli uomini dopo giorni di fumo acre e
irrespirabile, raggiunsero una fattoria nei pressi di
Tetegem.
Il comando francese concesse all’equipaggio di
alloggiare per una notte in un fienile, posto non
tanto sicuro perché vicino a una batteria mobile
antiaerea sottoposta ai tiri diretti
dell’artiglieria e dei bombardieri germanici. Gli
uomini del Foscolo accettarono anche questo rischio e si
mantennero inquadrati e disciplinati come se fossero
stati sulla loro nave.
Il cibo mancava e il rifugio si rivelò una trappola.
Alcune esplosioni di cannoni demolirono in parte
il fienile: sette soldati francesi furono feriti
gravemente, ma un tenente e il cappellano morirono sul
colpo.
Il carpentiere del Foscolo costruì una croce di legno
che fu ficcata nella terra per segnalare la loro
sepoltura nella campagna.
Alla data del 31 maggio / 1 giugno il comandante
annotava: “Ci troviamo fra due fuochi e senza speranza
con la sola fede nel Signore. Vitto razionato e quasi
sempre in pericolo di vita “
Il 2 giugno le truppe tedesche erano ormai a pochi
chilometri dal rifugio degli uomini del Foscolo. I
soldati francesi con i guardiani del museo decisero di
scappare e lasciarono l’equipaggio in mezzo alla
battaglia. Tra colpi di artiglieria e bombardamenti
aerei in prima linea, stretti l’uno con l’altro, non si
aspettavano più nulla, fino ad allora avevano salvato la
pelle.
Lo spirito del Foscolo li proteggeva?
“All’alba – scriveva nel suo diario il primo ufficiale –
gli aerei si erano diradati e anche il fuoco germanico
era cessato, segno che la resistenza franco inglese era
stata eliminata”.
Era il 3 giugno 1940, c’era un silenzio assoluto e
inquietante nella campagna; poi voci umane, concitate a
pochi passi dal rifugio; gli italiani si accorsero di
essere circondati dalle truppe d’assalto dei tedeschi.
Il comandante del Foscolo temeva che il suo equipaggio,
lacero e impolverato asserragliato nella fattoria ex
comando dei francesi, potesse venire scambiato dai
tedeschi per un reparto dell’esercito nemico, inglesi
forse, disertori o peggio. La situazione era drammatica,
non si poteva rischiare di soccombere senza neppure
potersi spiegare. L’Italia era o non era alleata della
Germania?
Gli uomini decisero di uscire allo scoperto, le mani in
alto per mostrare che erano disarmati, mentre il
comandante che parlava tedesco gridava: italiani,
siamo italiani. La presenza di quello strano gruppo di
sbandati tra le linee nemiche in aperta campagna non
convinceva i militari tedeschi che mantenevano
nervosamente i fucili spianati. Come potevano
immaginare, d’altronde, che nel campo di battaglia si
trovavano davanti un intero equipaggio della marina
mercantile italiana?
Non c’era tempo per riflettere, il comandante del
Foscolo chiese a un tenente che venissero esaminati i
loro documenti (i preziosi libretti di navigazione),
gli italiani erano allineati ad un passo dalla
morte sotto il tiro dei fucili dei loro alleati.
Finalmente il tenente diede l’ordine di abbassare le
armi. Ancora una volta quelli del Foscolo avevano
trovato una buona stella.
L’incontro con i soldati tedeschi non concluse però le
loro vicissitudini, perché per molti giorni condivisero
la marcia con i soldati nei campi e nelle trincee
fangose fino al primo presidio dove furono subito
rifocillati.
I militari avevano ricevuto ordini di portarli al
comando divisione germanico. Scrive il 3 giugno il
comandante del Foscolo: “Continua la vita di
tribolazioni e continui bombardamenti da batterie
e aerei, ( la resistenza francese nonostante tutto era
ancora attiva). Dopo peripezie infinite si passa la zona
di battaglia e veniamo accolti fraternamente dai comandi
tedeschi.”
Prima del rimpatrio l’8 giugno la navigazione prosegue
nello scenario di desolazione e morte, con tanti
imprevisti ma ormai la rotta del Foscolo continuava
sicura fino a Bruxelles, Colonia e Monaco. E poi il
rimpatrio.
La storia del naufragio della nave e l’odissea del suo
equipaggio fecero cronaca. L’Italia appena entrata in
guerra aveva bisogno di notizie in qualche modo
rassicuranti, storie che infondessero fiducia nella
capacità della nazione e dei suoi uomini.
Scriveva Luigi Barzini a tutta pagina su Il Popolo
d’Italia il 23 giugno 1940. “Trentaquattro marinai
italiani componenti l’equipaggio di una nave mercantile
affondata, portati dal destino nell’inferno di
Dunquerque, sfuggiti all’acqua per cadere nel fuoco,
sono emersi miracolosamente salvi dalla citta-fornace
dopo aver attraversato le più straordinarie e
drammatiche avventure che siano mai toccate a gente di
mare
“Scamiciati, stracciati, gli indumenti sporchi di
fuligine e di fango, le barbe lunghe, i capelli
arruffati, senza altro bagaglio che dei fagotti legati
con funicelle e qualche tozzo di pane dentro la camicia,
quando sono rientrati nel silenzio del mondo pacificato
parevano trentaquattro classici pirati”.
Nel lungo servizio del grande giornalista Barzini non si
menziona che il Foscolo fu colpito da aerei germanici,
d’altra parte sarebbe stata una propaganda negativa per
gli alleati dei tedeschi.
Noi preferiamo pensare, poiché crediamo all’anima delle
navi, che il piroscafo Foscolo si sia immolato per
salvare la vita del suo equipaggio per uno di quei patti
del destino che non si sa dove avvengono, ma avvengono.
Il 10 giugno l’Italia entrava ufficialmente in guerra a
fianco della Germania e quasi tutti i marinai del
Foscolo furono richiamati per fare la guerra… vera.
Questa vicenda interessò la Mediterranea Film di Roma
che scrisse alla Tirrenia e al comandante del Foscolo
per realizzare nel 1942 un film. La situazione bellica
impedì la riuscita di questa iniziativa, mentre sempre
nel 1942 la Tirrenia fece costruire una unità quasi
gemella, cui diede il nome di Foscolo, ai Cantieri del
Quarnaro di Fiume. Purtroppo nel dicembre dello stesso
anno, il Foscolo fu bombardato e affondato da
cacciabombardieri inglesi a tre miglia da Capo Lilibeo
in Sicilia.
Decio Lucano
Dal Libro L'odisssea del Foscolo, 1a ed. 1998
2a ed. 2003
Editore L’Automazione Navale
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